La mia conversazione con Massimo Pizzi Gasparon Contarini pubblicata sul libretto di sala del Festival Puccini Torre del Lago. Gasparon ha firmato, per la stagione del Centenario pucciniano nel 2024, la regia, scene e costumi di Manon Lescaut e Bohème.
Giacomo Puccini è un “compositore pop”: capace di cogliere lo spirito del tempo, al di là degli intellettualismi e degli psicologismi, amatissimo dal pubblico, e forse proprio per questo inizialmente meno amato da quella critica che oggi non manca di esaltarlo. Una sensibilità unica per l’arte teatrale a dimostrazione che il vero “pop” è complesso, stratificato, capace di parlare con la stessa forza a epoche e generazioni diverse.
Massimo a te il compito di mettere in scena i primi due grandi veri successi di Puccini, Manon Lescaut e Bohème, cogliendone gli archetipi narrativi senza tempo, evitando di cadere in forzate attualizzazioni.
E ti misuri per la prima volta con Manon Lescaut. Ne evidenzi l’incredibile modernità della protagonista, una vera material girl come cantava Madonna, alla ricerca di una libertà effimera connessa al denaro, al lusso, al consumo della società di massa. Ma questa passione compulsiva per le cose materiali si trasforma in pulsione autodistruttiva.
La psicologia di Manon assomiglia molto a quella di un’adolescente contemporanea, preda del mondo patinato e vuoto degli influencers consumisti. Manon danza come una farfalla notturna che batte le ali attratta da tutto ciò che brilla e arde, e proprio per questo è destinata alla autodistruzione. La sua cupidigia la costringe ad attardare la fuga per prendere più gioielli possibili e condannandola ad un destino tragico ed inesorabile. Come nella favola di Esopo, Manon dichiara più volte che in fondo questa “è la sua natura”, che lei non può cambiare ed è costretta a rimanere paradossalmente fedele a sé stessa per tutta l’opera.
Fin dall’inizio intuiamo che finirà male, poiché si avverte già una tragica malinconia che attraversa la partitura soprattutto nei duetti d’amore. Ma la magia della musica di Puccini ci fa comunque andare al di là del giudizio morale, confondendoci e facendoci amare Manon con la stessa cieca passione con cui la ama Des Grieux.
Tra Manon e Des Grieux c’è, per usare un’espressione contemporanea, un “amore tossico” in cui non c’è possibilità di dialogo. Ma forse possiamo essere comprensivi verso una donna che ama gli oggetti in un mondo dove dovrebbe essere un oggetto…
Quella tra Manon e Des Grieux non è solo una “relazione tossica”, ma un amore con veri tratti sadomasochistici. Manon si mostra più volte decisamente sadica verso Des Grieux, con finta ingenuità, ma ben consapevole del suo ascendente che utilizza con crudeltà, e più volte lo offende e lo delude per poi chiedergli scusa ipocritamente. Nel suo comportamento c’è il cinismo tipico dei bambini che, con assoluto egoismo, seguono ogni propria pulsione senza pensare alle conseguenze delle loro azioni. Des Grieux invece è un masochista per scelta, che trova in Manon la più dolce e seducente torturatrice, a cui disperato e sottomesso chiederà: “Nell’oscuro futuro dì, che farai di me?”
Fuoco, aria, acqua, terra. Hai scelto di distinguere gli atti con i quattro elementi come in un suggestivo viaggio iniziatico. Ma questo percorso in realtà non conduce Manon alla luce, quanto ad una catabasi che la relega all’inferno dell’anima, ricoperta dalla terra rossa del deserto. Nell’ultimo atto, ci troviamo con lei in uno spazio desolatamente vuoto in cui speriamo disperatamente di essere “trafitti da un raggio di sole” per porre fine all’angoscia.
Certamente l’esoterismo era familiare all’ambiente intellettuale toscano frequentato da Puccini, e se ne trovano tracce in molte delle sue opere. Nel primo atto l’elemento ispiratore è il fuoco della passione e della giovinezza che pervade ogni parola e ogni nota; nel secondo atto predomina l’aria, attraverso il senso di leggerezza del lusso che non si può mai veramente possedere, che distrae Manon e le impedisce di concentrarsi sui veri sentimenti; nel terzo atto siamo in un porto e domina l’acqua, da sempre utilizzata come simbolo di giudizio e giustizia del mondo esterno verso l’individuo. A questo punto è necessario notare che l’intermezzo musicale, solitamente posto all’inizio del terzo atto a sipario chiuso, è stato invece da me inserito tra il terzo e il quarto atto, al fine di evocare la navigazione dall’Europa all’America dei due deportati, e parallelamente si trasforma in un viaggio sentimentale a ritroso della storia d’amore tra Manon e Des Grieux. Riconosciamo le melodie delle principali arie che si intrecciano e si avvolgono evocando uno struggente sentimento di malinconia.
E finalmente la tragedia si compie: ritroviamo i due amanti soli in una terra che non concede speranza, un deserto esteriore che è pura metafora dell’aridità interiore di Manon. E per questo lei si ostina ad indossare ancora il ricco abito rosa del secondo atto (quasi da Barbie ante litteram) che oramai è ridotto quasi a brandelli. Manon tenta disperatamente di aggrapparsi a quella ricchezza perduta non accettando mai di cambiare la propria immagine, e proprio questa sua disperata materialità le nega anche la redenzione.
Questo passaggio tra gli elementi cosmici fondamentali acquista profondità cromatica grazie all’enorme ledwall che fa da sfondo alla scena. L’utilizzo che fai della tecnologia sembra inserirsi nel solco della tradizione della pittura di scena rivoluzionandola: il vecchio fondale dipinto si anima e prende vita.
L’uso di questo enorme schermo permette certamente un prolungamento scenografico della scena, ma allo stesso non consiste in un semplice fondale decorativo ma permette di spalancare una grande finestra sulle emozioni dei protagonisti. Non condivido l’utilizzo cinematografico che si fa spesso di questi schermi, usati per proiettare particolari giganteschi dei volti o sequenze video decisamente vicine ad un video clip pop. Lo schermo di fondo nei miei allestimenti è sempre parte integrante della scenografia costruita, per potere consentire di cambiare continuamente l’atmosfera della scena, creando una scenografia dei sentimenti e delle passioni parallela: il viaggio verso l’America è sentito e visto attraverso immagini evocative e alla fine dell’opera, lo schermo ci permette di mostrare il lento tramonto del sole in deserto che diventa buio, metafora visiva dell’agonia di Manon.

Anche nella Bohème viene utilizzato lo schermo led, ma la scena è qui dominata da una gigantesca soffitta al centro del palco, una mansarda ideale, astratta, razionale. Come la giovinezza in purezza dei protagonisti della vita bohemienne immaginata da Puccini.
Volevo sfuggire alla prevedibilità del realismo che ha relegato troppo spesso Bohème nei clichés dell’“effetto povertà parigina nel 1800”, con relativa improbabile soffitta buia con muri fintamente scrostati e Mimì vestita come una vecchia signora, con relativo “scialletto” in lana sulle spalle. Bohème è un’opera molto difficile perché molto nota, e nella mia ricerca di messa in scena dell’opera, non sono mai stato pienamente convinto né da un approccio registico filologico, che non riesce a dare a pieno la sensazione di vera giovinezza, irresponsabile, insolente e spensierata che percorre tutti i protagonisti, né da un forzato attualismo che cerca di collocare l’azione in un altro momento storico, cercando di eludere i veri nodi drammaturgici dell’opera.
Per questo ho cercato di ricreare l’atmosfera fresca e vitale di un mondo ideale di giovani intellettuali, anche attraverso costumi con un tono volutamente sopra le righe, in una commistione di stili che dia forma a questo mondo fuori dalle regole e dalla banale realtà, a volte sfiorando volutamente un’eccentricità i confini del kitsch.
Mimì stessa non può essere solo una buona ragazza senza alcun cedimento in malizia o civetteria, ma deve potere ritrovare quell’aria consapevolmente seducente che hanno tutte le protagoniste del romanzo di Henry Murger. E i quattro ragazzi che frequentano il Café Momus non sono solo dei poveracci scriteriati, quanto invece fini intellettuali che quasi certamente provengono da famiglie ricche e hanno avuto un’educazione sofisticata, come dimostrano con i loro atteggiamenti di scherno e parodia.Sono decisamente degli snob che giocano a fare gli artisti squattrinati, conducendo una vita al di sopra dei loro mezzi attuali, poiché è il solo modo in cui sanno vivere.
D’altronde, Puccini ci sta raccontando una vicenda paradigmatica in cui di realistico c’è ben poco. Il quadro di Momus, per esempio, sembra una scena degna della migliore Broadway, dove tutto è dichiaratamente finto, eccessivo e meravigliosamente orchestrato.
Puccini è stato l’unico compositore capace di traghettare il genere del melodramma ottocentesco nel nostro Novecento, con una sensibilità avanguardistica che continuamente innova l’opera lirica e ne segna definitivamente il percorso futuro: senza Puccini, non ci sarebbe stato il genere del musical e della grande tradizione hollywoodiana dei colossals musicali.
Un’ambientazione bohemienne tanto vera quanto irreale che corrisponde all’idea artificiosa di una giovinezza perfetta come “età di inganni e d’utopie” dove “si crede spera e tutto bello appare”. Un tempo perduto che forse non è mai davvero esistito. Ma la Parigi di Bohème è proprio per questo più parigina della Parigi reale, così come la giapponesità di Butterfly e l’orientalismo fiabesco di Turandot costruiscono perfetti simulacri di nuove realtà…
La nostra società è decisamente preda di una grande ipocrisia che ci impone di rappresentarci come “veri” e “reali” in uno spazio mediatico dove non di vero c’è molto poco e la verità fatica affannosamente a cercare spiragli di visibilità.
Io credo fermamente che il teatro non debba aderire a questa illusione cercando il realismo a tutti i costi. Il fare teatro è altra cosa e non si deve mai temere che il pubblico possa non capire. Il melodramma ha sempre vissuto di iperboli ed eccessi, spudoratamente incredibile e magnifico, anche nelle opere con ambientazioni più umili e letterariamente popolari.
Facendo teatro operistico non dobbiamo rinnegare mai la sua vera essenza, la sua vocazione al sogno e alla fantasia: dobbiamo liberarci dalla pretesa forzata di dovere ricondurre tutto a una qualche “credibilità”. L’opera piace proprio perché è incredibile e sospende la nostra banale attualità trasportandoci in una realtà parallela, in cui tutto è idealizzato e perfetto, e dove ci possiamo sentire finalmente liberi. Nell’opera lirica anche la morte diventa “bella”. Aristotele affermava che un animale morto dal vero ci ripugna, ma un animale morto dipinto può invece procurarci piacere estetico.
L’arte in generale – e così ogni opera di Puccini – è uno strumento straordinario che ci permette di raggiungere il sublime assoluto, e cercare di ridimensionarla allo squallore della realtà quotidiana equivale a privarla di tutta la sua forza evocativa.