Articolo apparso su l’Unità del 19/06/2016
Ci siamo: è arrivato il solstizio d’estate, il vero capodanno di massa che chiude la fredda e piovosa stagione del lavoro e apre la calda e radiosa stagione delle vacanze. Finisce la lunga attesa che ci ha permesso di andare avanti e ha dato un senso e una prospettiva al lavoro. Sta per materializzarsi il miraggio delle ferie, la terra promessa che orienta le ultime settimane di fatica e che ci ‘invita al viaggio’ fuori dall’ufficio, la speranza di una felicità che rende sopportabili gli ultimi impegni professionali.
Ma sarà vero? “Non ci sono più le stagioni di una volta”, e forse non ci sono più neanche le vacanze di una volta. L’idea che abbiamo della pausa estiva – quell’interruzione lontana da tutto e da tutti che pregustiamo in questi giorni – esiste ancora? In un mondo perennemente connesso è pensabile una pausa che non sia anche “condivisa” con la comunità virtuale? Sopravvive un atollo senza una connessione Wi-Fi? Riusciamo ad essere in vacanza senza postare su Instagram l’istantanea della spiaggia assolata?
Facciamo un passo indietro. Innanzitutto: quelle che chiamiamo “ferie” non sono sempre esistite. Come tutti i riti contemporanei, le vacanze estive hanno un’origine, una storia e un declino: nascono con l’urbanizzazione e l’industrializzazione della modernità, crescono con la società di massa, diventano ibride di realtà e finzione con la narrazione dei mass media.
La vacanza come oggi la intendiamo ha una precisa data di nascita: il primo dopoguerra. Il diritto al “periodo annuo feriale di riposo retribuito” viene sancito per la prima volta in Italia dalla fascistissima Carta del Lavoro del 1927.
E con le ferie obbligatorie, insieme all’evoluzione dei trasporti, dalle ferrovie alle automobili, le vacanze non sono più un privilegio di pochi, ma un diritto di tutti. Le masse conquistano un valore iconico – il tempo libero – fino ad allora riservato alla sola “vita agiata”.
Un mito contemporaneo, insomma, che affonda le radici nelle trasformazioni economiche e culturali che hanno sconquassato il Novecento. Un fenomeno relativamente recente che trova il suo apice negli anni Sessanta, con la diffusione pervasiva degli stabilimenti balneari e delle infrastrutture alberghiere.
Le vacanze estive, quindi, popolano il nostro immaginario come vero e proprio rito di progresso e di emancipazione. Danno vita a un mondo parallelo e a un tempo sospeso: la vacanza in campagna, al mare, in montagna implica un allontanamento da casa, dalla routine cittadina, dal grigiore delle giornate, dalla banalità della vita. L’estate come stagione della grande transumanza: ci si trasferisce altrove, in uno spazio provvisorio per vivere una personale rottura con la normalità. Momenti irripetibili che rimangono epici e indelebili nella memoria. Spazi che per definizione trapassano, stagione dopo stagione, dall’assenza alla presenza.
La mitologia delle vacanze, cioè, è stata un tassello insostituibile del nostro equilibrio psichico: un’atmosfera rarefatta in cui bere a grandi sorsi la vita, in cui afferrare la pienezza di un amore fugace, in cui dimenticare doveri e orari normali, in cui recuperare la cura di sé perduta dietro alle scadenze obbligate.
E con l’estate dovrebbe aprirsi la stagione del divertimento e della spensieratezza: il periodo sacrale della festa che promette di non finire mai. Non è un caso che i calendari degli eventi estivi delle città turistiche propongano un incessante ritmo di appuntamenti disparati: le vacanze devono sembrare eterne fino alle prime impressioni di settembre.
L’estate accende le piazze, illumina i lungomare, popola le strade. La vacanza è luminosa e chiassosa, come la vita che vorremmo. Siamo ormai lontani dal buio, triste e deserto, dei mesi invernali.
Ma il solstizio estivo ha in sé qualcosa di agrodolce. L’inizio della stagione, cioè, si porta dietro il presagio della sua fine. L’attesa della felicità vacanziera ha in sé la consapevolezza della sua vorace fugacità.
“Estate, sei calda come i baci che ho perduto, sei piena di un amore che è passato, che il cuore mio vorrebbe cancellar”. Odio l’estate cantava Bruno Martino nel 1961, l’anno del boom economico e delle spensierate vacanze estive. Nei versi di questo tormentone immortale della canzone italiana la stagione più amata e attesa è sotto processo: le vacanze estive sono destinate a finire sempre nello stesso modo. Con un addio.
Ogni estate inizia con un arrivo e si conclude con una partenza e, alla fine, “partire è un po’ morire”. Con la fine della stagione estiva, si rompe l’incantesimo. Come scrive Hermann Hesse nella lirica Settembre, con il declino dell’estate, tramonta anche un mondo solare che abbiamo abitato e amato: “L’estate rabbrividisce / andando incontro silenziosa alla sua fine”.
Per questo, il topos letterario e cinematografico delle vacanze estive – con le gloriose aspettative e le inevitabili delusioni – diventa sempre una sfavillante e tragica metafora della parabola della vita, dall’adolescenza all’età adulta. Dalla vitale innocenza della giovinezza alla cinica asprezza della maturità. Dalla spensieratezza all’apatia, dagli innamoramenti alle delusioni.
Non è un caso che il vero revisionismo critico sull’estate sia stato inaugurato da “American Graffiti”, il film di George Lucas del 1973. Il romanzo di formazione di un’intera generazione: una parabola decadente che parte dal Paradiso terrestre simboleggiato dall’ultima estate dell’adolescenza.
Anche nella versione italiana, con la mitica spiaggia della Forte dei Marmi del ’64, raccontata dei fratelli Vanzina nel film “Sapore di mare”. Alla fine, la spensierata estate tra gli ombrelloni muore con le “illusioni perdute” dei giovani di belle speranze, con gli esauriti destini di una generazione al tramonto.
Ma l’energia dirompente e la stridente malinconia dell’estate sono oggi in cerca d’autore.
Per il rito di passaggio delle vacanze estive è venuto il tempo della caduta e del declino: non esiste la sospensione totale dal lavoro quando possiamo essere raggiunti dalle emergenze tramite Smartphone; non esistono più gli amori misteriosi e segreti da quando esiste Facebook; non esiste più il confinamento di due mesi alla casa al mare da quando esistono WhatsApp e BlaBlaCar.
Lo spazio provvisorio e il tempo sospeso non abitano più una sola stagione dell’anno. Lo spazio e il tempo sono altrove, nella vera città delle vacanze che è la rete, nell’eterno presente dei nostri profili virtuali sempre connessi.
Rimangono solo gli stereotipi e i cliché del fantasma dell’estate passata. Un’estate che non abbiamo vissuto direttamente, ma che abbiamo sognato nei film, immaginato nei libri, pregustato nei racconti dei giovani di ieri.
E, per superare la delusione dei sogni infranti dalle vacanze impossibili, non ci resta che intonare l’ultima strofa di Bruno Martino: “Tornerà un altro inverno, cadranno mille petali di rose, la neve coprirà tutte le cose e forse un po’ di pace tornerà”.