L’articolo è apparso su l’Unità del 10/05/2016. Una riflessione pop filosofica su Gomorra, la serie. Un mondo – così lontano, eppure così vicino – in cui nessuno è innocente e nessuno può essere salvato. Nomen omen. Gomorra non è una parola qualsiasi. È un nome che ci trasporta all’origine. E l’origine, come sempre, non racconta il passato, ma offre una prospettiva sul futuro.
Gomorra è una delle città distrutte da Dio per la corruzione dei propri abitanti. Malgrado l’intercessione di Abramo, a Sodoma e Gomorra non ci sono neanche dieci uomini giusti che meritano di essere risparmiati. Il Signore le incenerisce con una pioggia di fuoco e zolfo.
Il nome Gomorra, quindi, incarna una condizione peccaminosa irrimediabile, una dimensione del Male totale e pervasiva. Una città dove nessuno è innocente, dove non c’è nessuna possibilità di redenzione. Una città che merita di essere trasformata in cenere. “Il grido è troppo grande e il peccato è molto grave”, si legge nel libro della Genesi.
È con questo sfondo biblico che meritano di essere viste le puntate di Gomorra, la serie.
D’altronde, Napoli si presta bene a questo ritratto contemporaneo della Gomorra biblica.
Come ha scritto Curzio Malaparte nel suo romanzo La Pelle: “Napoli è l’altra Europa. Che la ragione cartesiana non può penetrare”.
Gomorra puntata, dopo puntata, costruisce una realtà credibile e totale: dal linguaggio all’abbigliamento, dalla gestualità all’arredamento. La serie dà vita a un microcosmo all’interno del quale non c’è una definita e rassicurante lotta tra buoni e cattivi, tra legalità e crimine. Lo spettatore non ha la possibilità di parteggiare per il bene, di schierarsi dalla parte di integerrimi tutori della legge o di criminali dal cuore d’oro.
La narrazione va al di là dell’indagine documentaristica, dell’inchiesta giornalistica, della denuncia sociologica. Il racconto del Male è totale e spregiudicato. Senza sconti al moralismo o alla retorica. Nessuno è innocente, nessuno merita di essere salvato.
Anzi, la crudele brutalità che coinvolge tutti – anche i personaggi inizialmente puri e innocui – impedisce qualunque identificazione emotiva dello spettatore. Brutalità dopo brutalità, siamo condotti a una totale spersonalizzazione dello sguardo che può limitarsi soltanto a osservare una metafisica della violenza senza riscatto ed espiazione.
Una ruvidezza autentica che rende questa fiction uno dei pochi prodotti seriali italiani acclamati all’estero. Un prodotto narrativo dalle modalità espressive inedite che guarda alle esigenze di un pubblico mondiale e si libera dalle logiche melense della tv italiota. Dal Guardian al Daily Telegraph fino a Der Spiegel, sono piovute critiche entusiaste: “Dimenticate i Sopranos, ecco i Savastanos”.
Gomorra, però, non è stata recepita senza polemiche dal pubblico nostrano. Il popolo partenopeo – dalle associazioni cittadine ai sindaci locali – ha protestato per la versione unilaterale di una realtà perduta e irrecuperabile. Gomorra, si è gridato e scritto, è una fiction diseducativa. Le figure negative dei camorristi, infatti, non sono temperate da un eroismo positivo. L’epopea della famiglia Savastano è inserita in un universo post-apocalittico che non lascia spazio a una contro-narrazione edificante. Lo spettatore di Gomorra, quindi, deve confrontarsi, senza balsami lenitivi, con la crudezza di azioni che si espongono al rischio dell’emulazione e del fraintendimento.
Prima dei personaggi, però, è la dimensione globale della città deflagrata – Gomorra/Napoli – a essere protagonista assoluta della serie. La zona d’ombra della Napoli patinata da cartolina è un girone dantesco in cui la telecamera cattura, con un iperrealismo dai tratti espressionisti, i contrasti estremi di un organismo irrimediabilmente infettato dalla peste. I formicai degradati delle Vele di Scampia convivono accanto agli ambienti kitsch di casa Savastano.
Ma qual è la morale di quest’estetica della sgradevolezza?
La Napoli di Gomorra è un redivivo stato di natura hobbesiano dove vale la legge del più forte, dove l’uomo è lupo per l’altro uomo. Sul palcoscenico di questa città – dove non vige il codice di comandi e proibizioni imposto dallo Stato – gli uomini sono liberi di disporre liberamente della propria Forza e di imporla agli altri. Perché, come spiega il boss Pietro Savastano, “Le scimmie so’ belle quando fanno quello che dice il padrone, perché quando vogliono fare quello che vogliono loro, s’anna abbattere”. È la violenza, quindi, a giocare un ruolo cruciale all’interno delle relazioni sociali non mediate dello Stato (che di questa violenza detiene il monopolio legalizzato).
L’affresco fosco tinteggiato da Gomorra esce dalla mera trasposizione televisiva della Camorra napoletana e si avvicina al non-luogo della tradizione biblica.
Napoli/Gomorra non descrive l’arretratezza di un contesto ignorante e innocente che può e deve essere salvato. Napoli/Gomorra non rappresenta una condizione pre-civile e pre-politica che attende di essere inglobata all’interno di una realtà pacificata e legalizzata. Napoli/Gomorra non è neanche il rudere archeologico di un primitivo stato di natura che non è ancora evoluto in società civile.
Napoli/Gomorra è molto di più: i suoi confini sono indefiniti come quelli di una città biblica che ancora deve essere localizzata. L’impressione che attanaglia lo spettatore è che la fiction sia una sorta di inquietante distopia che non riguarda il passato ma prefigura un futuro che ci riguarda.
Un mondo in cui non è più prevista la presenza dello Stato, in cui gli individui hanno di nuovo il diritto di usare liberamente la forza, in cui la Giustizia è regolata dalla violenza privata. Un mondo – così lontano, eppure così vicino – in cui nessuno è innocente e nessuno può essere salvato. “Stai senza pensier”.