Siamo orfani. Anche la sesta stagione di Trono di Spade – che ci ha tenuto col fiato sospeso, puntata dopo puntata, per dieci interminabili (ma troppo brevi) settimane – è terminata. Ieri sera alle 22.00 è andata in onda su Sky Atlantic l’ultima attesissima puntata di Game of Thrones, “The Winds of Winter”.
L’entusiasmo globale dei fan della serie ha raggiunto livelli inauditi e la sesta stagione non ha tradito le aspettative. Il bacino degli appassionati al destino dei Sette Regni invece di diminuire (come fisiologicamente capita alle fiction longeve) ha raggiunto il picco più alto. Un pubblico destinato ad aumentare perché l’ultima puntata apre mille nuovi scenari e lascia insolute molte domande che ci obbligano ad attendere la nuova stagione.
Trono di Spade è stata anche l’unica fiction capace di modificare in corso d’opera la propria identità: la sesta è la prima stagione libera dai libri di George R. R. Martin e si affida totalmente al genio degli showrunner che hanno trasformato la saga fantasy in uno dei prodotti televisivi più riusciti di sempre. Tra scene epiche degne dei migliori cineasti e cliffhangers conclusivi per imprigionare lo spettatore, le settimane sono trascorse come giorni e ora l’estate non ci sembra altro che un lungo inverno. Il più lungo di sempre.
Le fiction come Trono di Spade, infatti, hanno la capacità di entrare nel nostro tempo privato e di definire – più del ciclo solare – i confini delle stagioni dell’anno: l’estate è dedicata alla pausa, alle repliche, alle elucubrazioni sul destino dei personaggi, alle discussioni piene di spoiler con gli amici che non sono in pari con le puntate. Una lunga attesa che si protrarrà fino alla prossima primavera dove si rianima il gioco per il potere temporaneamente sospeso dalle vacanze. Una serie culto come questa, insomma, non è patrimonio solo degli appassionati del genere, ma è vera e propria tradizione contemporanea, rito collettivo.
Un ruolo meritato: la sesta stagione ha saputo gestire straordinariamente una complessità impensabile di trame, di personaggi, di ambienti. Fino all’apice raggiunto con la penultima puntata – la Battaglia dei Bastardi tra l’esercito di Jon Snow, il bastardo di casa Stark, e le truppe di Ramsey, figlio illegittimo di Lord Bolton, usurpatore di Grande inverno. Il capolavoro adrenalinico dell’intera serie.
Un’impresa senza precedenti per una produzione televisiva, con un investimento di più di 10 milioni di dollari spesi in 25 giorni. La battaglia è costruita sul modello di epocali eventi storici del passato: dalla battaglia di Azincourt della Guerra dei Cent’anni alla battaglia di Canne durante la seconda guerra punica. La strategia militare di Ramsay, infatti, è esplicitamente ispirata a quella di Annibale che accerchia, con una manovra a tenaglia, le truppe romane e le distrugge bloccando tutte le vie di fuga. Ma il regista della puntata, Miguel Sapochnik, ha confessato anche le sue fonti cinematografiche: “Il mio punto di riferimento è stato RAN di Akira Kurosawa”. Tanto basta per entrare di diritto nella storia della televisione.
Un’edizione memorabile a partire dalla prima puntata The Red Woman, quando la bella strega Melisandre, sacerdotessa del Signore della Luce, si scopre vecchissima come nelle arcaiche leggende del Racconto dei Racconti. “La notte è buia e piena di terrori”.
Un punto di non ritorno che ha segnato lo stile di queste puntate: le donne sono il motore della narrazione. La giostra del potere, da Nord a Sud, si ferma in mani femminili perché il mondo – spiega Daenerys Targaryen a Yara Greyjoy – “sarà un posto migliore quando sarà governato da noi”.
Parole che fanno tornare in mente un dialogo della terza stagione. Missandei dice alla Madre dei Draghi: “Valar Morghulis, tutti gli uomini devono morire”. Lei, senza scomporsi, risponde: “Sì, tutti gli uomini devono morire, ma noi non siamo uomini”. È il pensiero femminile, insomma, a risultare vincente: l’unico ad avere la duttilità e la cura per prendersi carico della complessità dei problemi del mondo fantastico che è specchio del mondo reale.
I personaggi femminili che popolano questo mondo parallelo, insomma, non definiscono un monolitico universo che riproduce vizi e virtù tipicamente donneschi. Al contrario, gli stereotipi della femminilità si mescolano e si contraddicono.
Trono di Spade ci dimostra che non esiste un’unica definizione di “Donna”. Le donne sono forti e deboli, intelligenti e pazze, amorevoli e crudeli. Sono regine, guerriere, puttane, damigelle, amanti e madri. Senza melensi vittimismi.
Da una guerriera coraggiosa e fedele come Brienne a una spregiudicata vendicatrice come Ellaria Sand divenuta regina di Dorne; da una ragazza che deve perdere se stessa per ritrovare la sua identità come Arya Stark fino alla saggezza della regina-bambina di Mormont che orienta le decisioni dei vecchi Lord di Grande Inverno.
A cominciare da Sansa Stark che, più di ogni altra, ha subito una totale metamorfosi. È passata attraverso l’inferno fisico e psicologico, prima nelle mani dei Lannister poi in quelle dei Bolton, e si è trasformata. Il carattere si forma liberandosi dalle illusioni, attraversando la sofferenza e perdendo la purezza nel confronto con la crudeltà del reale.
L’unica giustizia possibile è la vendetta, altrettanto crudele e senza sconti. Per questo, Sansa promette al suo torturatore la pena peggiore nel tempo delle passioni rappresentate: “Le tue parole scompariranno. La tua casata scomparirà. Il tuo nome scomparirà. Tutta la memoria di te scomparirà”.
La Stark non esita – seguendo la legge della retribuzione, in cui alla colpa corrisponde un’adeguata e speculare punizione – a far sbranare Ramsey dai suoi cani, che lui stesso aveva utilizzato per seviziare i suoi prigionieri. Insomma, “alleva i corvi e ti caveranno gli occhi”.
Una vendetta liberatoria e catartica anche per lo spettatore che – dopo aver digerito scene di crudeltà insostenibili – può utilizzare la giustizia dell’occhio per occhio, evitando processi garantisti, senza sensi di colpa.
La stessa terribile vendetta è preparata da Cersei Lannister per la sua torturatrice al servizio dell’Alto Passero. La vendetta, ammette, non serve solo a riequilibrare i torti subiti e inflitti, ma è un’inestinguibile fonte di piacere.
In questo sovvertimento della sorte della regina di Approdo del Re si cela l’altro scenario inedito aperto dall’ultima puntata: la distruzione di Alto Passero. La conquista del potere, quindi, è sempre di più una pratica terrena che non è guidata dal volere degli dei.
La trascendenza non è prevista. O meglio, è il volere degli dei ad essere orientato alla provvidenziale conquista del Trono e, al gioco del Trono, o si vince o si muore. E l’integralismo religioso che non si sposa con questi interessi concreti è destinato a essere sconfitto. Non è pensabile, nel mondo di Westeros (e non soltanto), un equilibrio da Sacro Romano Impero, in cui il potere politico va a braccetto con il potere religioso.
È chiaro che Trono di Spade si presenta al pubblico come una sorta di meta-teatro del mondo in cui l’intera storia umana – passata, presente e futura – viene rimasticata e ripensata sullo schermo. Il nostro interesse di spettatori, quindi, non è orientato solo a sapere come va a finire la guerra tra le famiglie dei Sette Regni. Vogliamo conoscere il destino stesso della nostra Storia. Vogliamo sapere qual è il nostro destino. Vogliamo sapere se Bran, divenuto Corvo dai Tre Occhi, è in grado di avverare il presente che stiamo vivendo interferendo con il passato di casa Stark.
Insomma, lo spettatore che ieri era in trepidante attesa davanti al televisore non è affatto “addormentato” di fronte a questa qualità estetica e narrativa senza precedenti. Al contrario, è sempre più “emancipato” e ha capito che, come annuncia Sansa a Jon durante l’ultima puntata, “l’inverno è ormai arrivato”.