La filosofia di Trono di Spade

jon-snow
Articolo apparso su l’Unità del 25 aprile 2016. 
“Al gioco del trono o si vince o si muore”, è la regola di Trono di Spade, eccellenza della narrazione seriale, pluripremiata dalla critica e amatissima dal pubblico di tutto il mondo. E il gioco continua, riparte  la sesta stagione sul canale statunitense HBO (in Italia su Sky Atlantic) e si lavora già alla settima.

Gli showrunner David Benioff e D.B. Weiss hanno creato un grandioso adattamento televisivo di una delle saghe lettearie più seguite degli ultimi anni: le “Cronache del ghiaccio e del fuoco” di George R. R. Martin. Una realtà parallela nella quale soggiornano da anni milioni di lettori (e telespettatori). Una grandiosa architettura capace di dar vita a uno dei fandom più dinamici e sofisticati del momento.

Ma cosa trasforma la ludica visione di una fiction televisiva in un’attesa ansiosa e trepidante? Cosa c’è di speciale in “Games of Thrones” da costringere il presidente Barack Obama a chiedere alla produzione di vedere in anteprima le puntate della sesta stagione?

Certo, vogliamo tutti sapere se l’amatissimo Jon Snow è davvero morto per mano dei Guardiani della Notte; vogliamo sapere se l’arrivo della sacerdotessa Melisandre alla Barriera cambierà la sorte segnata dalla spada per il bastardo di Ned Stark. Ma il successo mondiale di Trono di Spade non si esaurisce nella patologica e maniacale curiosità dei suoi fan.

Trono di Spade dà vita a una narrazione credibile, a un universo abitabile, a un mondo autentico, tanto vero quanto brutale. Westeros, il continente occidentale creato da Martin, è un mondo in guerra, devastato da una lotta fratricida tra le famiglie dei Sette Regni per la conquista del trono. Un mondo in cui nessuna violenza è risparmiata: in Trono di Spade ciò che maggiormente caratterizza l’uomo, a differenza dell’animale, è la sua propensione alla crudeltà.

Un cosmos ordinato da frontiere reali e simboliche che escludono ciò che è estraneo. La casata – il ghenos direbbero i greci – è l’unico orizzonte di senso che definisce il codice etico all’interno del quale si forma l’individuo. Il sangue è il destino che orienta lo svolgersi degli eventi: dagli Stark ai Lannister, dai Baratheon ai Targaryen.

Un altissimo e gelido sbarramento, un Vallo di Adriano di ghiaccio, delimita le terre del Nord, dove al di là dell’ordine conoscibile vivono gli Estranei. Un Barriera sorvegliata dai Guardiani della Notte nella speranza di fermare l’Alterità.

Tutti sono consapevoli che “Winter is coming, l’inverno sta arrivando”. E con l’inverno, forze oscure trasformeranno il cosmos in caos, l’ordine in disordine. “L’inverno del nostro scontento” non si trasformerà mai in “gloriosa estate”, come sperava il Riccardo III shakespeariano.

Games of Thrones è un affresco gotico che mescola storia e fantasia, realtà e letteratura, attualità e immaginazione. Le vicende di Westeros assomigliano alle cruente vicende della storia inglese e scozzese, agli appassionanti intrighi del Rinascimento italiano.

La lotta senza quartiere per la successione al trono sconvolge i Sette Regni. E così, la rivalità tra i Lannister e gli Stark si avvicina – perfino nell’assonanza linguistica – al sanguinoso conflitto dinastico della Guerra delle Due Rose. Rivivono, accanto ai draghi e ai metalupi, i Lancaster e gli York. E sulle due casate incombe, come nella realtà storica, un terzo e imprevedibile elemento: i Tudor o la regina dei draghi, ultima erede dei Targaryen.

Dietro queste vicende vengono rinnovati tradizionali modelli narrativi. I personaggi non sono classificabili all’interno della facile dicotomia tra bene e male. Non c’è un polo luminoso della saggezza né un universo oscuro del male. La plasticità dei protagonisti discende da uno scrupoloso realismo psicologico.

In Trono di Spade, il conflitto tra angeli e demoni si svolge all’interno di ciascun personaggio. Il guerriero e la regina, l’eroe e la prostituta devono combattere con la stessa costitutiva ambiguità. In una lotta incessante con le paure più oscure, gli istinti più bestiali, le debolezze più innominabili. E, alternativamente, gli stessi personaggi suscitano stima e repulsione, simpatia e disgusto. Tra crudeltà e compassione, ogni personaggio è camaleontico; nessuno ha una natura definita e predeterminata.

E la specificità della saga letteraria e della serie televisiva si annida proprio qui: nella possibilità di costruire nel tempo – volume dopo volume, puntata dopo puntata – le psicologie di queste personalità sfaccettate, fatte di dettagli, di vezzi, di gesti. Solo così il lettore e lo spettatore possono conoscere intimamente i tormenti dell’animo dei protagonisti nei quali riconoscono se stessi.

In un interminabile e drammatico viaggio di formazione, seguiamo le vicissitudini dei giovani Stark, che incontriamo spensierati e lasceremo inesorabilmente segnati dalla crudeltà della vita.

È il dramma della caducità umana dove qualsivoglia personaggio è precario a se stesso. Ogni stagione televisiva sottopone gli spettatori al trauma della perdita: l’appuntamento con il destino sacrifica gli eroi più amati sull’altare della Storia. Tutti i personaggi sono importanti, ma nessuno indispensabile per il dispiegarsi delle “Cronache del ghiaccio e del fuoco”.

Ma tutto è vero, terribilmente vero. Anche la puntata che più ha scosso gli spettatori – il red wedding, le nozze rosse – dove viene trucidata a tradimento metà della famiglia Stark, non è che una straordinaria messa in scena di un classico della storia rinascimentale. Una citazione dal Machiavelli della sorte di Oliverotto Euffreducci che prima conquista il potere trucidando durante un banchetto in suo onore l’amato zio e tutti i notabili fermani e poi fa la stessa fine a Senigallia, la sera di capodanno, strangolato per mano di Cesare Borgia insieme a tutti gli avversari del Valentino.

Un mondo spietato, regolato da un’etica barbarica, dove vige la legge del taglione, dell’occhio per occhio. Il diritto come esercizio della forza. I processi sono una farsa e le condanne scontate. Non esiste la giustizia, ma il farsi giustizia. La vendetta si impone come valore etico assoluto. In Game of Thrones si affrontano il tabù dell’incesto e l’inevitabilità del parricidio, la vendetta del ghenos e la punizione del fato, l’onore del guerriero e l’ambizione del sovrano, il dovere di ospitalità e il pericolo del tradimento.

Ma i motivi del successo di Trono di Spade non si arrestano qui. Non bastano le descrizioni sublimi dell’ambientazione, né l’avvincente concatenarsi degli eventi, delle battaglie e dei colpi di scena.

Tutto converge verso un unico fine: il potere. La sua conquista spiega e giustifica ogni comportamento. Ma il potere non arride ai più forti, ma ai più accorti: va in scena l’eterno conflitto tra forza e intelligenza.

Le sanguinose vicende di Grande Inverno ci interrogano in ogni puntata sulla natura metamorfica del potere. “Il potere risiede dove gli uomini credono che il potere risieda – dice l’eunuco Varys, il Maestro dei Sussurri – È un trucco. Un’ombra sul muro. E un uomo molto piccolo è in grado di proiettare un’ombra molto grande”.

In questa cruenta guerra di tutti contro tutti per la conquista dell’ombra più lunga, l’uomo deve farsi “sia volpe che leone”, pronto a muovere i pezzi sulla scacchiera anticipando e prevenendo la mossa dell’avversario.

In questa prospettiva, perfino le scelte più detestabili assumono una luce diversa se avvicinate alle ciniche pagine de “Il Principe” di Machiavelli che – fedele alla ragion di stato – non è immune da una pragmatica e calcolata crudeltà.

Ogni decisione ha una zona d’ombra. D’altronde decidere – come suggerisce l’etimologia latina –  significa tagliare: procurarsi una ferita che fa sgorgare il sangue. Non esiste decisione che non implichi sofferenza, non esiste scelta che non sia rischiosa. Ma senza sangue, senza sofferenza non può esserci vita.

La serialità americana attualizza potenti archetipi ancestrali. Qui sta la grandezza e la finezza dell’operazione mediatica che rilancia a livello mondiale un prototipo culturale unificante.

Un pensiero compiuto che dà forma contemporanea ai modelli che da sempre sorreggono la tradizione filosofica e letteraria occidentale. Solo mobilitando gli intramontabili Omero e Shakespeare, Machiavelli e Freud possiamo intendere e comprendere la complessità appassionante del ‘gioco dei troni’. Si afferma egemone nella politica dell’intrattenimento planetario la grandezza del “canone occidentale”.

Trono di Spade smentisce la fine delle grandi narrazioni paventata dai critici del post-moderno e rilancia un’epica compiuta e sapiente. E, in occasione del quattrocentesimo anniversario della morte di Shakespeare, la serie TV si candida come l’avamposto più convincente per ridare voce alle tragiche ossessioni del Bardo. Tra Falstaff e Robert Baratheon, tra Jago e Petyr Baelish, l’ombra di Shakespeare si allunga su tutto l’universo culturale contemporaneo e conquista alla sua filosofia drammatica e nichilista le più remote piazze del mondo globalizzato.

“Le cronache del ghiaccio e del fuoco” offrono l’interpretazione più persuasiva e sofisticata dell’inquietudine che scuote il mondo. “Gli uomini non desiderano mai ciò che possiedono” (Melisandre). Soltanto la sofferenza è la condizione di vita autentica; il piacere non può essere che un’illusione e un sogno. Dobbiamo pertanto continuare a rimanere connessi alle vicende di Westeros perché, come dice Ygritte a Jon Snow, “se moriremo, moriremo. Ma prima vivremo”.