Checco Zalone e l’Italia barbara

Articolo apparso su l’Unità del 30/12/2015

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Ridere e far ridere è un’attività molto seria che merita quella considerazione su cui la cultura italiana rimane ancora reticente. “Analizzare la comicità è come dissezionare una rana. Interessa a poche persone, e la rana muore”. Fuor di metafora: non appena si tenta di interpretare ciò che il riso rappresenta per la condizione umana, questo scompare. O peggio: riflettere sulla comicità rende tristi e malinconici.

Ora non possiamo esimerci dal farlo: arriva nelle sale il nuovo film di Checco Zalone e Checco Zalone è un fenomeno talmente stimolante che ci obbliga a una, seppur triste e malinconica, riflessione sulla (sua) comicità.

Il suo mestiere è antichissimo e il “far ridere” ha dei codici estetici millenari che la cultura non può ignorare; d’altronde la stessa attività del “ridere” incarna una necessità biologica e antropologica originaria che niente può sostituire.

Oggi il campo di battaglia in cui si mette alla prova la capacità di ridere e di far ridere è la sala cinematografica. Le festività natalizie sono il torneo bellico della risata.

La festa, per definizione, è il perfect day; capovolge il mondo e sospende il ritmo lavorativo. È tempo di mangiare, di bere, e – la cosa più importante – di ridere insieme.

Il film comico delle vacanze non è dunque un semplice passatempo, ma una vera e propria ritualità festiva in cui si invertono l’alto e il basso, lo spirituale e il materiale, la testa e il ventre.

Il personaggio di Checco Zalone si inserisce all’interno di questa tradizione, spesso usurata e obsoleta, realizzando un appuntamento rituale nuovo, che ne rinnova e ne orienta il senso con una freschezza inedita. Per capirne l’originalità, paradossalmente, non dobbiamo neanche aspettare di andare al cinema: basta considerare la promozione che ha preceduto l’uscita del film.

I trailer dei film comici italici contengono le uniche battute divertenti di tutta la pellicola e, quasi sempre, compromettono la visione integrale che non può che rivelarsi una ripetitiva delusione. Checco Zalone, al contrario, ha saputo gestire il successo dei film precedenti e ha creato una crescente e misteriosa attesa per “Quo vado?”: ha deciso di promuovere il film attraverso degli sketch autonomi che si limitano a invitare il pubblico ad andare al cinema senza svelare nulla della trama del film.

Già da queste anticipazioni è chiaro come il mestiere di “far ridere” sia un lavoro ‘pensato’, basato sulla qualità e sulla complessità: tempi comici, espressioni facciali, sceneggiatura e capacità di innovare rimanendo riconoscibili.

Ma che cosa definisce questa riconoscibilità? Quali sono le caratteristiche che identificano Checco Zalone e ne determinano il successo? Insomma, chi e che cosa rappresenta Checco Zalone?

Per approssimarci alla risposta, proviamo innanzitutto a dire chi e che cosa “non è” il comico pugliese. Innanzitutto, la comicità di Checco Zalone non è satira politica, non è facilmente apparentabile a uno schieramento partitico o ideologico. Anzi, rifugge l’engagement e pratica il disimpegno. Eppure, nel panorama attuale, Checco Zalone risulta il comico più scomodo e politicamente scorretto, pur giocando con le sole armi della leggerezza.

In secondo luogo, la comicità di Checco Zalone non è gratuita volgarità, non è una maschera stereotipata forzatamente scurrile. Anzi, si mostra con la naturalezza di un personaggio totalmente credibile che interpreta se stesso. Eppure, nel panorama attuale, il più autentico dei comici nazional popolari è anche il più ‘controllato’, capace di attraversare vari registri comici, dalla gag alla canzonetta.

Nella comicità di Checco Zalone c’è sempre qualcosa di più. Qualcosa che affonda le radici nel cuore di tenebra dell’identità italica. Qualcosa capace di toccare (comicamente, s’intende) il nucleo fiero della sua origine rurale. Un grumo antico che potremmo sintetizzare, parafrasando un’espressione di Curzio Malaparte, con “la rivincita dell’Italia Barbara”.

La banale metafora della rivincita della campagna sulla città porta con sé una costellazione di altre dicotomie: la rivincita della sottocultura paesana sulla dotta erudizione radical chic; la rivincita delle virtù veraci e genuine sulle verniciature morali; la rivincita dell’idillio pastorale sulle magnifiche sorti e progressive. In termini letterari, la rivincita di Strapaese, la rivincita di quella condizione dell’animo che esalta ed esaspera l’anacronistico provincialismo del “genius loci”.

Checco Zalone – con il linguaggio comico e le forme contemporanee – dipinge una elegia nostalgica che gli italiani conoscono bene. Perché si appropria di una linea narrativa sotterranea e perdurante che affonda le sue radici nelle “piacevoli et ridicolose simplicità” del Bertoldino scritte da Giulio Cesare Croce.

Bertoldo/Checco è la maschera sempiterna dell’inettitudine e della genuinità del terrone italico, rozzo e ignorante. Checco, come Bertoldo “dalle scarpe grosse e dal cervello fino”, è l’Homer Simpson de’ noantri, è un eroe profondamente italiano che ha le sue radici nella tradizione popolare e provinciale nostrana. Le orecchiette pugliesi di Checco non sono diverse dai capponi di Renzo di manzoniana memoria.

D’altronde siamo il paese che legge di meno, ma anche degli innumerevoli festival educativi, delle continue presentazioni di libri e degli onanismi intellettuali: il mondo culturale si prende molto sul serio. E i bersagli della vis comica di Checco Zalone non possono essere altro che le pop star della cultura italiana, da Saviano a Gramellini. Il mondo culturale cerca di riassorbirlo – invitandolo nel suo salotto buono a “Che tempo che fa” – ma il compito di Checco Zalone rimane quello di ridicolizzare l’atteggiamento spocchioso dell’intellettuale à la page, elogiando un’ignoranza ruspante, veicolo di valori autentici. I suoi film rappresentano una sorta di “anti Gomorra”, dove l’ignoranza non è necessariamente sinonimo di crimine e dove la cultura non è necessariamente sinonimo di etica.

E l’Italia popolare e provinciale – quell’Italia che non vuole morire mai e che è sepolta in ognuno di noi – ride e solidarizza con lui. Scatta subito un contatto empatico, una risata spontanea, un’immedesimazione genuina. Checco/Bertoldo ci assolve nella nostra incapacità di integrarci nel tritacarne della società moderna e globalizzata, ci consola nel nostro desiderio nostalgico di tornare in quel posto antico fatto di dialetto e tradizione che riconosciamo come casa, ci riscatta nelle nostre inadeguatezze intellettuali e inettitudini sociali.

Checco Zalone ritrova la capacità catartica e liberatoria della risata aggrappandosi a un’esigenza remota e attuale: incarna un’ostilità immodificabile e reazionaria al cambiamento.

Una resistenza di cui, però, capiamo (e forse condividiamo) lo spirito. La nostalgia di quel piccolo mondo antico, senza biblioteche e circoli di lettura, gretto e limitato, ma semplice e innocente. Masse ed élite ridono con Checco Zalone, unite dalla stessa malinconica domanda: “perché non son io co’ miei pastori”?

Nella scelta di campo finale, però, il lieto fine esonda sempre in una possente vena di ottimismo. Non c’è rassegnazione tragica, ma vitalità giocosa e antidepressiva che attraversa i cambiamenti non facendosi cambiare. Insomma, lui ce l’ha fatta e noi ce la faremo.