Adieu, Philippe!

Articolo uscito su “Il Riformista” del 3 settembre 2020 – Il dandy ha “il dono della facoltà di vedere” insieme alla “potenza di esprimere” – ha scritto Charles Baudelaire – ma è come un “sole al tramonto” perché emana un “ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadenza”. 

Una definizione su misura per il nostro Philippe Daverio, l’ultimo dandy di cui piangiamo oggi la scomparsa. Con i suoi panciotti policromi e il suo inconfondibile papillon, rappresentava un maestro di stile, la via eccentrica della critica d’arte nostrana, sempre attenta alla ricerca del bello ma con la capacità di raccontarlo in territori extra-accademici.   

Aveva esordito con grande successo come barman nel locale del fratello all’isola d’Elba.

Poi è stato tante cose tra cui assessore alla cultura di Milano con il primo (e finora ultimo) sindaco leghista Marco Formentini; direttore della rivista “Art Dossier”; docente per chiara fama all’Università di Palermo. Perfino attore con la sua memorabile comparsata alla Scala ne “La vedova allegra” diretta dal maestro Pier Luigi Pizzi.  

Ma soprattutto un indimenticato divulgatore televisivo, con il suo “Passepartout” ha fatto la storia della televisione italiana. Senza il tono altezzoso e soporifero dell’Accademia prestata alla televisione – Daverio rifuggiva le sterili banalizzazioni scolastiche didascaliche e coinvolgeva lo spettatore in un viaggio insolito, ricco di riferimenti colti e di boutade surreali, di aneddoti leggendari e di dettagli inediti. 

Un vero e proprio “passepartout”, un grimaldello per farsi capire (e amare) da un pubblico di massa con la chiarezza limpida di chi conosce la complessità, con la capacità di prendere per mano l’osservatore per farlo entrare dentro il mondo creato dalle sue parole. I suoi ascoltatori fedelissimi non hanno smesso di seguirlo, anche dopo chiusura inaspettata della trasmissione, nelle sue pellegrinazioni in giro per il mondo.

La sua capacità di “vedere” e di “far vedere” l’arte è lontana dalla ricerca filologica ed erudita praticata dall’Università che a forza di studiare l’arte finisce spesso per non riconoscerla. Lontano degli accademismi, dalla critica ufficiale e dalle correnti universitarie, quella di Daverio era una vera e propria filosofia dello sguardo che trasforma il critico in un demiurgo capace di mostrare l’invisibile. 

Chi sa solo di arte non sa nulla di arte, potrebbe essere il suo motto. L’occhio daveriano era innanzitutto sincretico, sempre attento alle connessioni che uniscono ambiti diversi, alle comparazioni che creano inediti percorsi paralleli. I suoi interventi pubblici e i suoi saggi divulgativi sono un florilegio di contaminazioni tra discipline diverse, non c’è arte senza riferimento alla storia e alla filosofia, all’antropologia e alla sociologia, alla letteratura e alla psicologia. Ma anche tra cultura alta e cultura bassa non ci sono steccati invalicabili: scovava legami tra grandi artisti ed epigoni minori, tra enogastronomia e folklore, tra vezzi caratteriali e abitudini popolari. 

In ogni trascurabile dettaglio poteva nascondersi lo specchio distorto di uno spaccato di mondo. Era convinto che spesso il particolare riuscisse a contenere il tutto. 

Daverio – che non si era mai laureato ed era inviso e deriso dal Gotha snob dell’accademia italica che reagiva con sdegno all’odore sulfureo di divulgazione e notorietà – aveva una cultura sconfinata e un’attitudine poliglotta che lo rendevano inclassificabile nel contesto intellettuale ufficiale. Per questo, però, era amato da un pubblico così ampio ed eterogeneo: rispondeva all’esigenza contemporanea di allargare la comprensione a linguaggi diversi, di una cultura che include e connette, senza trincerarsi dietro ad un elitario specialismo. 

Non è un caso che la sua provenienza non sia accademica, ma legata al mondo del mercato dell’arte. Philippe amava raccontare i suoi primi anni da gallerista tra Milano e New York ricchi di incontri, di scoperte e di delusioni, anni in cui aveva imparato ad avere lo sguardo – arguto e furbo – che lo ha accompagnato per tutta la sua vita. In fondo, ripeteva spesso, “sono rimasto un mercante d’arte affascinato dal bello”.

Tornano in mente le parole del filosofo Walter Benjamin – patologico bibliofilo e figlio di un antiquario e mercante d’arte – che nel collezionista vedeva lo stupore del fanciullo e il piglio del rivoluzionario che “si trasferisce idealmente in un mondo migliore, dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili”. Un “pescatore di perle”, come Hannah Arendt ha definito Benjamin in un meraviglioso saggio a lui dedicato, che sa vedere il mondo in un frammento.

D’altronde il mercante, il collezionista, l’antiquario guardano al mondo dell’arte in modo diverso e unico: sono segugi che inseguono tracce, scovano percorsi inediti, ipotizzano attribuzioni affidandosi non solo alla competenza ma anche all’intuito e all’istinto. Sono spinti dalla passione disinteressata così come dagli interessi del mercato e, non da ultimo, devono maneggiare con maestria l’arte della retorica per persuadere il compratore e ammaliare il cliente. 

Le parole creano mondi, affascinano e seducono. E Daverio lo sapeva quando incantava il pubblico con mirabolanti elucubrazioni, dove la correttezza filologica cedeva il passo a voli pindarici che traghettavano in universi sconosciuti. La domanda di partenza era presto dimenticata e le parole seguivano il fluire disordinato dei pensieri: il punto di arrivo era imprevedibile, ma il viaggio era sempre stupefacente. 

Era un maestro della narrazione, anticipatore dell’arte dello storytelling mediale su cui oggi piovono manuali: sapeva che per attirare l’attenzione del pubblico bisognava innanzitutto raccontare una storia, una storia appassionante fatta di uomini e donne in carne ed ossa, di imprese e di guerre, di incontri memorabili e di terribili casualità, in cui l’opera d’arte è un tassello nell’appassionante commedia del mondo.   

Alla domanda “come facciamo a riconoscere un artista?” – in una delle ultime interviste che gli feci durante il festival “Popsophia” che amava frequentare perché, come lui, connetteva mondi apparentemente distanti – mi rispose: “C’è un meccanismo semplicissimo: i grandi artisti riescono ad anticipare il mondo di domani, conoscendo il mistero del mondo di ieri”. Adieu, Philippe!