Articolo uscito su “Il Riformista” di sabato 11 luglio 2020 – Salvatore (interpretato magnificamente da Jacques Perrin) – un regista siciliano di successo, trapiantato a Roma da trent’anni – scopre che l’amico d’infanzia Alfredo è morto. Da qui parte un lunghissimo flashback che ci riporta nel secondo dopoguerra, in una Sicilia onirica e premoderna. Il piccolo Totò vive a Giancaldo, un paesino immaginario che assurge a luogo della memoria e del ricordo di un mondo perduto e schiacciato dal progresso.
“Non tornare più, non ci pensare mai a noi, non ti voltare, non scrivere. Non ti fare fottere dalla nostalgia, dimenticaci tutti. Se non resisti e torni indietro, non venirmi a trovare, non ti faccio entrare a casa mia. O’ capisti? Qualunque cosa farai, amala, come amavi la cabina del paradiso quando eri picciriddu” aveva detto Alfredo, ormai cieco dopo l’incendio del Nuovo Cinema Paradiso, al giovane Totò restio a lasciare la sua terra natia, l’immobile e bellissima Sicilia. Quando finalmente si convince a salire sul treno, partono note del brano di Ennio Morricone Infanzia e maturità.
Sembra un miracolo: l’indicibile emozione – che fonde la sofferenza di allontanarsi dalle sicurezze degli affetti e l’eccitazione per le novità di un futuro incerto – appare d’improvviso palpabile. Tornatore ci mostra una scena straziante e lo fa da grande maestro della regia, con parole ed immagini. Tuttavia, è solo quando risuonano le note musicali di Morricone, che una sensazione inafferrabile – quella che ogni essere umano prova nel corso del passaggio obbligato e spaventoso dall’infanzia alla maturità – diventa concreta. Il senso di quello che abbiamo appena visto sullo schermo ci investe finalmente in tutta la sua potenza. Perché, scriveva Marcel Proust nella sua Recherche “L’essenza della musica sta nella capacità di risvegliare in noi quel fondo misterioso della nostra anima, che comincia là dove il finito e tutte le arti che hanno per oggetto il finito si fermano”.
Il finale, con il suo montaggio di baci censurati, fa ormai parte della storia del cinema. Totò entra in una sala cinematografica vuota e chiede di proiettare la bobina che gli ha lasciato in eredità Alfredo, il burbero proiezionista analfabeta del Cinema Paradiso con cui aveva passato l’infanzia. Il suo vecchio amico è morto da tempo, il Nuovo Cinema Paradiso è stato demolito, il suo primo amore irrimediabilmente perduto.
Il fascio di luce del proiettore illumina il volto di Salvatore rigato dalle lacrime, mentre la bobina si srotola e i fotogrammi si susseguono dando vita a una seria di scene d’amore. Quelle che erano state tagliate dalle pellicole per non offendere il pudore degli spettatori.
https://www.youtube.com/watch?v=eUm-1a34aXw
Un collage di baci rubati e la musica di Ennio Morricone: un sortilegio ammaliante che ci trasporta in un tempo perduto che solo la lanterna magica del cinema può ricostruire affidandosi all’unione sincronica di immagini e suono.
La traccia – scritta a quattro mani col figlio Andrea Morricone – si intitola Tema d’amore ed è un crescendo orchestrale che accompagna la commozione incontenibile del protagonista. Lo spazio diventa tempo, le cose diventano ricordi. In quelle labbra che si sfiorano c’è una vita intera.
Una scena che racchiude la magia del cinema, una finzione più vera del vero: le emozioni che ne scaturiscono sono mediate e autentiche.
Le lacrime che solcano il volto del protagonista sono speculari a quelle di chi la ascolta. Il sortilegio nostalgico della melodia strappa il pianto autentico del rimpianto.
La musica di Morricone è la voce autentica della nostalgia, dolorosa ma catartica. Essa ci costringe a una presa di coscienza lacerante: il passato, e con lui, gli amori e le imprese della giovinezza, sono irrimediabilmente perduti. Contemporaneamente veleno e medicina, la sua musica è l’unica salvezza dal dolore che essa stessa ha causato, l’unico modo per elaborare una disperata consapevolezza.
È la nostalgia, infatti, il motore più potente del mondo contemporaneo. Quell’istinto primario e universale che – nei momenti di passaggio verso una nuova fase della vita o della storia – guarda indietro, alle certezze del passato invece che alle incertezze del futuro. Nella salda convinzione che, come scrive Proust, “i veri paradisi sono quelli perduti”.
Mentre la polvere ricopre le suppellettili del nostro vecchio mondo, ci assale il sospetto di aver lasciato lì, insieme alla giovinezza, anche l’unica possibilità di felicità.
E la musica – scrive il filosofo francese Vladimir Jankélévitch – è l’arte nostalgica per eccellenza perché racchiude il carattere ineffabile della nostalgia. La nostalgia musicale svela l’incurabilità costitutiva della malattia del ritorno: la nostalgia si nutre del conflitto tra la possibilità di ripercorrere lo spazio e l’impossibilità di recuperare il tempo.
Le colonne sonore di Morricone, simili al canto dell’aedo nell’Odissea, fanno lacrimare perché richiamano ciò che è destinato a non ritornare, ciò che non ci appartiene più perché completamente irrecuperabile. Non questo o quel ricordo in particolare, ma l’irreversibilità del tempo in quanto tale.
La nostalgia musicale incarna la possibilità di vivere in più tempi: accanto alla vita normale esiste una vita spettrale, un’immaginazione fantasmatica che si lega alla possibilità utopica di ripristinare – solo per il tempo dell’ascolto – il tempo perduto.
Nuovo Cinema Paradiso – Oscar come miglior film straniero nel 1990 – non può essere scisso dal tappeto sonoro ideato da Morricone, uno dei pochi eletti del novecento con il dono della sinestesia; capace di vedere i suoni e di ascoltare le immagini.
Le note, fotogramma dopo fotogramma, disegnano lo struggimento dei ricordi, ci cullano e ci commuovono sempre con la stessa intensità ogni volta che la riascoltiamo.
Oggi, forse, più di ieri.