Articolo apparso su l’Unità del 10/12/2015
“Attacca!” Da domani non sentiremo più l’ormai mitico grido di incitamento di Skin. Si conclude la nona stagione di X Factor Italia (stasera in diretta su Sky Uno). E, come previsto, tutti i record delle precedenti edizioni sono stati battuti. Anche in Italia, X Factor è diventato un fenomeno pop che va ben oltre il programma televisivo: è un’epidemia virale che si diffonde a macchia d’olio, un’overdose di tweet, post, link da Twitter a Facebook, da Instagram a YouTube. Ma a cosa è dovuto questo successo mediatico, questa necessità esplosiva di condivisione che attrae magneticamente protagonisti e spettatori?
X Factor, innanzitutto, è un talent show musicale: la finalità è scovare quel fattore “x” che distingue la personalità di un cantante. E il compito di talent scout è affidato a quattro giudici autorevoli che, dall’alto della loro carriera nel mondo dello show business, selezionano e guidano i concorrenti. Quattro amministratori delegati delle tendenze dominanti nella cultura musicale del momento. Imitando la maieutica socratica, il giudice interpreta il ruolo del maestro che aiuta l’allievo a partorire, con dolore e sofferenza, il proprio talento.
“Tira fuori l’x factor che è in te!” Il programma, cioè, non crea il talento, ma aiuta i giovani dilettanti a manifestarlo: puntata dopo puntata, il quid artistico che i giudici hanno intravisto nei canditati alle audizioni emerge sempre di più in superficie.
Ecco, in superficie. X Factor è un elogio spudorato della superficie: un’apologia dorata di tutto ciò che la nostra società dovrebbe disprezzare. X Factor opera una vera e propria trasvalutazione dei disvalori, tra egoismi e aggressività, tra simulacri e manipolazioni. Una glorificazione dell’illusione e dell’effimero in cui il paradiso agognato è sempre lo stesso: lo Star System.
Qualche tempo fa è circolata in rete una bufala demenziale, quanto significativa: la notizia dava per certa la presenza, come giudice della nuova edizione di X Factor America, del linguista e filosofo Noam Chomsky che si sarebbe presentato ai telespettatori con questa affermazione: “X Factor è parte di una propaganda culturale globale, di un’ideologia della confortante illusione”. Chomsky, insomma, sarebbe stato un giudice “fantastico”, per usare un aggettivo amato dalla giudice Skin, ma purtroppo il sogno proibito dei pop filosofi di tutto il mondo non si è avverato e la notizia è stata subito smentita.
Rimane vero, però, il carattere di “confortante illusione” di questo show. La mission di X Factor, infatti, è indirizzata a tutti e a nessuno. In altri termini, si rivolge alle masse. X Factor, uno show che seleziona il talento e premia il merito, è l’American Dream della cultura pop.
E dalla sperduta provincia sarda al palcoscenico del Mediolanum Forum di Milano non è che un passo: X Factor è il riscatto contro la sorte avversa, è l’occasione che consente di realizzare il proprio destino a prescindere dalle possibilità economiche e ambientali di partenza. X Factor, quindi, incarna la mitologia del successo che non è più affidato al caso e alla raccomandazione, ma alla certezza dell’esposizione mediatica garantita dallo show. E la promessa è rilanciata al pubblico che, di anno in anno, aumenta esponenzialmente: “Tu puoi essere il prossimo”.
Chiaramente il “talento” cercato non è soltanto musicale e canoro: il personaggio prevale sull’artista, il carattere prevale sulla preparazione. Il talento, cioè, deve inserirsi all’interno della narrazione dello show, costruita dalla scrittura degli autori televisivi e dalle preferenze del pubblico.
Per far salire in superficie l’x factor, però, i concorrenti devono anche trasformarsi. La storia è sempre la stessa: il brutto anatroccolo che diventa un cigno, Cenerentola che si trasforma in principessa. Come nello sdoppiamento tra Madeleine e Judy ne La donna che visse due volte di Hitchcock, i concorrenti si travestono da se stessi per assomigliarsi. Facendo emergere una bellezza e una sensualità che era sepolta sotto cumuli di stracci e capelli scompigliati. Mascherandosi diventano autentici. E, come ha mirabilmente dimostrato Meryl Streep ne Il Diavolo veste Prada, entrano in Paradiso: “Tutti vogliono questa vita. Tutti vogliono essere noi”.
I ragazzi arrivano acerbi e inesperti, ma diventano veri artisti nel momento in cui il programma plasma la loro personalità, nel momento in cui recitano una parte nel grande spettacolo di cui sono protagonisti. Acquisiscono uno stile che “funziona in televisione” e diventano – come ripete ossessivamente il giudice Mika – “credibili”.
X Factor, quindi, è un grande elogio dell’individualismo: ognuno gareggia per sé e punta al podio contro gli altri. Come ha scritto Kathryn Bromwich sul Guardian “La filosofia del format televisivo basato sull’esclusione fa tornare in mente la teoria della sopravvivenza del più forte di Charles Darwin”.
Il percorso evolutivo del talent prevede il passaggio di step selettivi sempre più difficili – dalle audizioni ai bootcamp, dagli home visit ai live. E la metafora linguistica utilizzata è sempre quella del “viaggio”: dalla partenza (l’audizione) all’arrivo (l’eliminazione) si è svolto un percorso di crescita e di miglioramento attraverso il superamento di prove e di ostacoli. Insomma, il programma si pone come vero e proprio cammino iniziatico a cui anche il pubblico, dall’esterno, partecipa.
È proprio il pubblico, infatti, che ha potere assoluto sull’interruzione di questo viaggio mediatico. Come da tradizione, è il tribunale popolare che decide la vita o la morte dei concorrenti. Nell’antica arena gladiatoria si alzava il pollice in alto o in basso, oggi si clicca la faccia del concorrente sul touch-screen del proprio smartphone. Ma il giudizio ultimo è sempre popolare e sempre eseguito attraverso un gesto delle mani. La tecnologia è solo l’ultimo stadio di un’antica tradizione che seleziona il vincitore.
E il pubblico accorre, come le tricoteuses a Place de la Concorde, per sapere chi sarà ghigliottinato dalla decisione popolare. “Il gioco funziona così” e si procede, con grandi sofferenze trasmesse empaticamente al pubblico, all’eliminazione: un Rollerball con violenza simulata, un Hunger Games con morte metaforica. Una condanna senza appello al lassismo e un peana alla pedagogia della fatica: “uno su mille ce la fa, ma quant’è dura la salita!”
Ma l’altra grande protagonista del programma e veicolo indiscusso del suo successo è l’estetica dello studio televisivo. X Factor è un grande teatro in cui le quinte sono disegnate a immagine e somiglianza dei concorrenti. Un grande teatro barocco in cui si riproduce artificialmente il mondo – l’acqua, il fuoco, la terra, le stelle, il vento, la luce e il buio – attraverso i marchingegni dell’effimero. Una complessità che non siamo abituati a vedere nella televisione nostrana, un livello estetico che fa apparire gli studi del servizio pubblico come un mero ricordo vintage.
A questo trionfante allestimento partecipano tutte le professionalità della società contemporanea – dal direttore artistico al costumista, dallo stilist a make-up artist, dallo scenografo al produttore –che, in un complesso gioco di equipe, concorrono alla creazione dell’opera d’arte totale pop dove niente è lasciato al caso e tutto tende alla perfezione.
X Factor, insomma, è una moderna arena nazionalpopolare che unisce il mondo in fantasmagorici giochi circensi 2.0. E mentre acclamiamo i nostri gladiatori canori, affiniamo il nostro gusto estetico.