Articolo uscito su exibart il 3/10/2023 – “E se il mondo coi suoi guai / Alle spalle lascerai / Le nubi puoi guardar / Puoi volar”. Settant’anni fa – al Festival di Cannes del 1953 – veniva proiettato per la prima volta il cartone animato di Walt Disney dedicato al mito del bambino che non vuole crescere: Le avventure di Peter Pan. Lo spirito dell’infanzia incarnato da un ragazzino con le orecchie a punta da elfo, con indosso una tunica verde e un berretto con una piuma rossa. Decennio dopo decennio, il sogno di volar via da casa, seguendo la seconda stella a destra fino al mattino, ha ammaliato generazioni di bambini e preoccupato generazioni di genitori.
Certo, la versione disneyana è fin troppo addomesticata rispetto alla perturbante storia inventata da James Mattiew Barrie agli inizi del Novecento, andata in scena a teatro per la prima volta nella Londra di 120 anni fa.
A Never-Never Land – l’isola che non c’è popolata da pirati, sirene, fatine e pellerossa – Peter vive con i suoi Lost Boys, Bambini Perduti “che cadono dalla carrozzina quando la loro bambinaia non fa attenzione” e “se nessuno li reclama entro sette giorni, vengono mandati all’Isola che non c’è”. Barrie – per la sua prima teatrale – fece accomodare tra il pubblico 25 orfani londinesi, anche loro perduti nella metropoli e in cerca di una casa, e lasciò i diritti delle sue opere a un ospedale per bambini (con cui Disney dovrà combattere per anni per ottenere il copyright dell’opera).
L’ispirazione per la storia di Peter nasce nei giardini di Kensington, dall’incontro fortuito con i cinque figli della famiglia Davies, a cui Barrie si affeziona a tal punto che ne avrà la custodia dopo la morte precoce dei genitori.
Ma il primo “bambino perduto” è il fratello maggiore di James, David, morto a quattordici anni per un incidente sul ghiaccio. Un trauma della perdita che segna la sua infanzia e lo lega morbosamente alla figura materna che rivede in lui il fantasma del figlio scomparso, un rapporto di amore e dipendenza che alimenterà la sua paura di crescere.
La favola di Barrie, quindi, è una storia dolorosa fin dagli esordi. Peter stesso è un “bambino perduto”. Quando aveva soli sette giorni scappa dalla finestra della sua casa per volare libero e selvaggio fuori dalle mura domestiche. E ora è un’anima relegata in un limbo: è ragazzo-uccello – un “fra-fra”, come si definisce – che non può tornare a essere un tordo né può diventare un bambino vero.
Quando, preso dalla malinconia, si decide a tornare a casa è troppo tardi e la finestra della sua vecchia cameretta è ormai chiusa. A rileggerla oggi, è struggente la scena in cui – dietro il vetro – vede la sua mamma cullare un nuovo figlio: “Peter chiamò «Mamma! Mamma!» ma lei non lo sentì; invano egli picchiò contro le inferriate. Dovette tornare indietro, singhiozzando, ai Giardini, e mai più rivide la sua diletta”.
Il Peter letterario è una sorta di angelo della morte, un traghettatore di anime di “bambini perduti”: lui li aiuta a fare l’ultimo tratto di strada senza paura, prima di passare in un aldilà fuori dal tempo, dove saranno piccoli per sempre. Come ricorda il critico Giorgio Manganelli nella sua splendida recensione: “esiste un modo per non crescere, ed è quello di morire, morire subito”.
Fermare il tempo dell’infanzia vuol dire non vivere. I bambini perduti si dimenticano della loro vita precedente e della loro famiglia, perdendo il senso del passare del tempo. E diventano simili a Peter, fantasma senza memoria, che ogni tanto ferma la sua corsa sfrenata, preso da una vaga e temporanea malinconia di un tempo mai vissuto.
L’isola che non c’è non ci appare più tanto desiderabile, ha il fascino tetro della morte, fluttua sul mare dell’oscurità come Il castello dei Pirenei di Magritte. Nello stesso Peter Pan l’attrazione per la morte è forte come quella per la vita: “la morte sarà una straordinaria avventura” dice quando crede di annegare per mano di Capitan Uncino.
Un Peter molto diverso da quello immaginato da Steven Spielberg in Hook, interpretato da uno straordinario Robin Williams che rovescia l’assunto per aderire all’happening hollywoodiano: «Vivere. vivere può essere un’avventura straordinaria».
Il Dio Pan
Non sappiamo se i Kensington Gardens, dopo l’ora di chiusura, si popolino di fate e folletti come nella storia immaginata da Barrie. Ma vicino al laghetto, al centro del parco, campeggia una statua bronzea di Peter Pan, realizzata dallo scultore George Frampton nel 1912.
In quel sorriso pacifico e sdolcinato, però, Barrie non riconosce il suo Pan, perché non traspare “il demoniaco che c’è in lui” dichiara dopo averla vista.
Il nome “Pan”, infatti, non era stato scelto a caso. Imbevuto di cultura classica, laureato in lettere antiche, Barrie mette nel suo personaggio un po’ dell’inquietante dio Pan della mitologia greca, il figlio di Ermes e di una ninfa, abbandonato appena nato. La risata di Peter, come quella del suo antenato, non è quella di un bambino spensierato, ma il grido che richiama oscuri presagi.
Bisognerebbe rileggere Kerényi, Jung, Hillman che parlano delle caratteristiche del dio dalla natura selvatica, del dio dell’ombra, del fanciullino divino abbandonato. Un folletto arcaico che suona lo zufolo, connesso alla divinità della musica, dell’ebrezza e della follia: il temibile Dioniso. Così come Peter Pan con il suo flauto incanta tutti gli esseri fatati della foresta, addomestica le forze selvagge della natura, imita i suoni degli animali e fa danzare le fate.
Nella mitologia, Pan è una creatura pulsionale e istintiva, che dà libero sfogo alle pulsioni e ai desideri. È spesso raffigurato come un satiro, mezzo uomo e mezzo capretto, così come il suo erede Peter cavalca una capretta donatagli da una bambina.
Una figura duplice e ambigua che continua ad affascinare schiere di scrittori e artisti. Il grido di Pan, spiega lo scrittore Matteo Nucci nel suo ultimo saggio dall’omonimo titolo, è il grido della terra, che richiama il ciclo di nascita e morte che unisce le metamorfosi della natura, un “grido panico” che “gli esseri umani sono chiamati ad ascoltare”.
L’infanzia incarnata da Peter, dunque, non è una fase iniziale della vita da superare, così come l’età adulta non è una fase finale da raggiungere. Come spiega Simone Regazzoni nel suo Mia figlia, la filosofia. La forza dell’infanzia e della paternità: “L’età adulta è una forma di vita specifica – ottusa e fallimentare – della razionalità occidentale moderna, presentata come ideale del vivente umano che si costituisce a partire dall’esclusione e dalla negazione dell’infanzia e del suo logos selvaggio, perché troppo vicina all’animismo e all’antropomorfismo pre-moderni”.
Tutti i bambini crescono, tranne uno
Il nostro eroe non vuole crescere perché diventare grandi vuol dire anche abbandonare la crudele impulsività dell’infanzia che Barrie definisce “senza cuore”. Crescere vuol dire fare i conti con il male dentro di sé, con la propria “ombra” che Peter Pan non riesce proprio a tenersi attaccata.
“Peter Pan senza volerlo è stato l’archetipo dell’infantilismo che dilaga nel mondo moderno” ha scritto Francesco M. Cataluccio nel suo Immaturità. La malattia del nostro tempo. La cosiddetta “sindrome di Peter Pan” – teorizzata dallo psicanalista americano Dan Kiley nel 1983 – è la malattia che affligge gli adulti che si comportano come bambini, che agiscono come narcisisti patologici e irresponsabili cronici, sempre alla ricerca di una donna che si prenda cura di loro come una mamma.
Per questo la storia di Peter Pan è ancora attuale, e viene sempre interpretata e riletta alla luce delle inquietudini del mondo contemporaneo. Ne è un esempio l’opera musicale Peter Pan, the dark side prodotta quest’anno dalla Fondazione Haydn di Trento e Bolzano con la musica di Wolfgang Mitterer, il libretto di David Pountney e la regia di Daisy Evans. Tra suoni contemporanei ed elettronici, Peter non è altro che un fantasma digitale, creazione virtuale dei nostri sogni di pixel. Neverland è un’evasione domestica che esiste dentro un videogioco.
In tutti i bambini – scrive Barrie – c’è il “desiderio di tornare alle cime degli alberi”. Abbiamo dimenticato che prima di diventare umani eravamo uccellini e ci libravano liberi nel cielo, per questo tutti i bambini “sono naturalmente un po’ selvaggi durante le prime settimane di vita, con un certo pizzicorino alle spalle, dove prima avevano le ali”. Ci è rimasta una voglia di evasione dalla prigione domestica, un desiderio di tornare liberi da regole e costrizioni.
“Indietro, signora; nessuno mi acciufferà per farmi diventare uomo!” grida Peter che non vuole diventare un bambino per bene, andare a scuola, lavorare e sposarsi come un adulto qualsiasi (e come Wendy e i suoi fratelli). Lui vuole rimanere bambino e continuare a essere “allegro, innocente e senza cuore”.