Articolo uscito su l’Unità del 06/10/2023 – In questo tempestoso presente può il teatro renderci liberi? A poco più di un anno dalla morte di Peter Brook, avvenuta il 2 luglio 2022 a 97 anni, il RomaEuropa Festival 2023 ha riportato all’Auditorium Parco della Musica l’ultimo spettacolo di uno dei più grandi maestri del teatro del Novecento.
Tempest Project – realizzato con Marie-Hélène Estienne, regista, drammaturga e sua storica collaboratrice – è appunto un “progetto”, una ricerca aperta, uno spettacolo in divenire. Sembra di assistere alle prove di regia di un allestimento ancora da compiersi: lo spettatore è invitato a sbirciare dietro le quinte di un lavoro in fieri.
Una ricerca che, con la morte del regista, ci viene consegnata come costitutivamente incompiuta. Il teatro di Peter Brook è sempre un “progettare”, un pro – jacere, un gettarsi in avanti, verso il teatro del futuro, verso un teatro che ancora non c’è, che deve ancora realizzarsi. Un’arte che non possiamo teorizzare una volta per tutte, ma che dobbiamo attuare in una pratica quotidiana in cui siamo tutti coinvolti.
Non è un caso che l’ultima opera allestita da Brook sia proprio The Tempest, l’ultimo lavoro scritto da William Shakespeare.
Brook ha avuto un rapporto costante con l’opera di Shakespeare: per tutta la sua lunga carriera si è confrontato e scontrato con la potenza delle passioni agitate dal Bardo; i suoi spettacoli shakespeariani hanno fatto la storia del teatro, da Romeo e Giulietta a Re Lear, passando per Tito Andronico e Sogno di una notte di mezza estate.
Ma un legame speciale lo unisce alla Tempesta, il testamento spirituale di Shakespeare.
Theatrum mundi. La Tempesta è una meta-riflessione sul teatro del mondo e sul mondo del teatro: la burrasca messa in scena da Ariel e Prospero all’inizio dell’opera non è altro che un’illusione teatrale, una fragile fantasia destinata a dissolversi “nell’aria sottile”.
Nelle pieghe di questa favola onirica si nasconde una meditazione filosofica senza tempo che riecheggia nel “tutto è nulla” del nichilismo nietzschiano e leopardiano. La fine dello spettacolo è la fine della “nostra piccola vita circondata da un sonno”.
In questo testo, dunque, è contenuta “ogni meraviglia e ogni terrore”, per rubare una battuta di Gonzalo; per questo le interpretazioni sono inesauribili e Peter Brook la mette in scena molte volte: esordisce a Stratford nel 1957, poi nel 1968 a Parigi con il primo laboratorio di improvvisazione di quello che diventerà il “Centro Internazionale di Ricerche Teatrali” con attori di tutte le lingue e di tutte le provenienze andati in tournée in tutto il mondo.
Brook torna a interrogare The Tempest nel 1990 con il famoso allestimento parigino al Théâtre des Bouffes du Nord che dirigeva. Ne La porta aperta, una raccolta pubblicata nel 1993, possiamo leggere la complessa gestazione di questo allestimento realizzato con la scenografa Chloé Obolensky. Un lungo studio che lo porta a eliminare tutti gli effetti scenici che volevano stupire lo spettatore, per raggiungere l’essenzialità di uno “spazio vuoto” capace di far respirare la potenza del testo.
D’altronde – come ricorda nel suo saggio più famoso diventato ormai un classico della biblioteca teatrale contemporanea, The empty space, Lo spazio vuoto – la forma più ricorrente e più pericolosa del teatro è quella che lui definisce “mortale”: il teatro il cui unico effetto è “la noia”, il teatro in cui non accade nulla di importante se non che “ci annoiamo mortalmente”.
Tutto il lavoro di Brook è orientato a evitare questa morte, forse inevitabile, forse già avvenuta. La scomparsa della magia è metafora della scomparsa del teatro, l’arte di Prospero e l’arte di Shakespeare sono le illusioni perdute che non esistono più nel mondo moderno e nell’Occidente contemporaneo, sempre più secolarizzato e desacralizzato.
Per questo Brook costruisce un “giardino zen” in cui far rivivere il mondo immateriale, in cui far risuonare per l’ultima volta il sacro, in cui poter ancora ascoltare la musica dell’isola che non c’è di Prospero e Miranda. Un tentativo per mantenere l’eco di un teatro vivo, capace di ampliare l’orizzonte del reale e di rendere visibile l’invisibile.
Vogliamo ancora credere alla magia, con la consapevolezza che tutto ciò che si costruisce sul palcoscenico del “great globe” – nel duplice significato del Globe Theatre di Londra e del mondo in cui va in scena la nostra fragile e breve vita – è destinato alla vanitas di cui sono fatti i sogni.
“La tempesta è un enigma” ha scritto Brook, un enigma senza tempo e senza confini. Per questo la scenografia minimale annulla il contesto storico e crea una quiete dopo la tempesta dove lasciare spazio all’ambiguità del testo più esoterico di Shakespeare.
“Ogni invenzione e ogni decorazione appaiono superflue e persino volgari” perché impediscono di far viaggiare l’immaginazione degli attori e degli spettatori. Tempest Project segue questo svuotamento programmatico. Pochissimi elementi appoggiati sulle assi del palcoscenico nudo: un piccolo tappeto, ceppi di legno, pezzi di stoffe sdrucite, qualche panchina appoggiata ai lati. Nessuno spazio per orpelli e artifici tecnici.
Tutto è affidato agli interpreti, tutto è nelle mani degli attori, volutamente scelti di nazionalità differenti: ogni attore è esteriormente e linguisticamente straniero rispetto all’altro, irriducibilmente diverso. Si crea un laboratorio interculturale in cui il francese della traduzione di Jean-Claude Carrière è sporcato da accenti italiani, tedeschi, argentini, ruandesi.
“A play is play, recitare è gioco” scrive Brook nell’ultima riga di Lo spazio vuoto. E William Shakespeare è il modello in quest’alternanza tra profondità e leggerezza del gioco serio del teatro e della vita: “Il suo scopo è sempre il sacro, il metafisico, ma non commette mai l’errore di restare troppo a lungo sul livello più elevato. Ben sapendo quanto sia difficile per noi restare in compagnia dell’assoluto, ci fa piombare sulla terra”.
Anche in Tempest Project, la giocosità di Stefano e Trinculo – interpretati dai gemelli italiani Fabio e Luca Maniglio – ci consente di sperimentare l’alternanza tra teatro sacro e teatro ruvido (Brook usa il termine “rough”). Tra le aspirazioni dell’anima e i desideri del corpo, tra i riferimenti virginali di Prospero e Miranda e i volgari doppi sensi dei due ubriaconi, dobbiamo condurre la nostra navigatio vitae.
Brook-Estienne riduce al massimo il testo di Shakespeare per raggiungere il nocciolo essenziale, per toccare il cuore dell’opera racchiuso nella parola che più ricorre tra tutti i personaggi: “libertà”. Un elemento che “arriva come un suggerimento e che risuona in tutto il testo come un’eco” scrive Brook nelle note di regia: la libertà naturale di Ariel, la libertà selvaggia di Caliban, la libertà della meraviglia [wonder] di Miranda, la libertà umana di Prospero, soggiogato dal desiderio di vendetta.
“Voi ambite ad essere perdonati. Per vostra indulgenza, sono infine libero” dice Prospero alla fine della pièce, per bocca dell’attore di origine africana Ery Nzaramba, che ha vissuto il genocidio del Ruanda e che si è rifugiato in Europa.
Prospero-Nzaramba ha rinunciato alla vendetta e ha ritrovato la sua umanità nel perdono e nella tenerezza, ma prima di uscire di scena ci chiama in causa: ora tocca a noi, siamo noi che dobbiamo donargli la libertà, siamo noi i responsabili del suo destino.
La libertà non è solo cercata e rivendicata, la libertà – per essere autentica e condivisa – deve essere donata. Non possiamo godere della nostra libertà, se non siamo anche liberatori degli altri. Ecco l’eredità pesante che Brook ci consegna: saremo in grado di farci carico di questo compito?