“L’amore, quando non lo subiamo, ci è naturale considerarlo evitabile e filosofare sulla pazzia degli altri” scrive Marcel Proust ne La fuggitiva. E per i più scettici è questa l’utilità di San Valentino: quando non ne siamo coinvolti, la ricorrenza degli innamorati serve a filosofare sulla pazzia degli altri e sulle loro derive consumiste.
San Valentino, se guardato con occhi agnostici, è una ricorrenza inutile e melensa. Serve a riempire i ristoranti di coppiette, ad acquistare fiori, cioccolatini e biglietti sdolcinati. Insomma, si potrebbe sbrigativamente concludere con una frase di Don Draper, cinico e inquieto protagonista della serie tv Mad Men: l’amore patinato di San Valentino “è stato inventato dai pubblicitari per vendere calze”. Ti amo perdutamente – nell’epoca in cui l’amore non può essere scisso dall’ironia – è una dichiarazione passabile solo per un romanzo rosa di Liala, come ha scritto Umberto Eco?
Ma le cose sono più complesse di come sembrano. San Valentino non è una ricorrenza creata ad arte dalla società di massa. Al contrario, la festa degli innamorati è antica quanto il mondo. Dalla festa pagana dei Lupercalia che celebra la fertilità e il risveglio della natura dopo l’inverno, alla sua cristianizzazione con il martire San Valentino di Terni, vescovo del II secolo d. C., che celebra il primo matrimonio tra un legionario romano e una giovane cristiana. Fino alla consacrazione dell’amor cortese di Geoffrey Chauser che, in onore delle nozze tra Riccardo II e Anna di Boemia, scrive Il Parlamento degli Uccelli, un poema che associa Cupido a San Valentino.
Ma se il primo valentine risale al XV secolo con Carlo d’Orléans che si rivolge alla moglie scrivendo “Je suis déjà d’amour tanné, ma très douce Valentinée”, i biglietti d’amore più strazianti sono i Blue Valentines di Tom Waits che spezzano il cuore di chiunque li ascolti. D’altronde, l’amore è muto e solo la poesia lo fa parlare.
E i biglietti d’amore hanno da sempre un linguaggio universale che esalta e, al contempo, annulla le differenze. Risibili, in questa prospettiva, i tentativi di chi oggi vorrebbe reintrodurre anacronistiche divisioni in base all’orientamento sessuale. Ci ha insegnato Platone, secoli fa, come sia innato l’amore reciproco che “tende a fare di due esseri uno solo”, siano essi un uomo e una donna, due uomini o due donne.
San Valentino, insomma, non è una ricorrenza qualunque, una celebrazione annuale equiparabile alla festa della mamma, del papà o dei nonni. San Valentino è un vero e proprio rito antropologico che affonda le sue radici in un’esigenza umana a cui nessuno può sfuggire.
Che cosa rappresenta, dunque, San Valentino? Una risposta si cela nei versi di una delle canzoni d’amore più celebri: My Funny Valentine, un brano scritto nel 1937 e portato al successo dai più grandi interpreti come Ella Fitzgerald e Frank Sinatra.
“Stay little Valentine stay, Each day is Valentine’s Day”. Ecco, questa è la promessa, illusoria quanto seducente, che sigilla la festa degli innamorati: che, d’ora in poi, ogni giorno sia San Valentino. Fermati attimo! – gridiamo il 14 febbraio – perché il mio desiderio è appagato, ho trovato ciò che stavo cercando. Fermati attimo, la mia ricerca è finita!
San Valentino è il modo per immortalare un intimo “fermo immagine”, un’istantanea in cui la fusione con la nostra anima gemella è al riparo dalla corrosione del tempo. In fin dei conti, dal Bacio di Hayez a quello di cioccolato, San Valentino ci promette un attimo eterno di fusione con l’altro. Una notte che non conosce il canto dell’allodola.
Per una sera si interrompe l’incessante ricerca in cui spendiamo la nostra esistenza; il doloroso movimento con cui ci approssimiamo all’altro, sperando che sia la nostra parte mancante, è accontentato. Per una sera, la promessa di eternità non sembra uno spergiuro: “non sarà un’avventura, non è un fuoco che col tempo può morire, ma vivrà quanto il mondo”, cantava Lucio Battisti.
E poco importa se di quest’attimo rimarrà sono un frammento, un discorso spezzato in una dedica dimenticata. Poco importa se della corsa verso la totalità che ha nome “amore” rimarrà solo il desiderio che, come ci suggerisce l’etimologia, implica una distanza siderale e incolmabile. Poco importa se, alla fine della giornata, torneremo a essere solo un symbolon, un contrassegno, una parte che mai potrà essere un intero. Poco importa se, alla fine, il nobile e vincolante giuramento del “per sempre” sarà calpestato per non rinunciare all’effimera libertà di rincorrere una libellula in un prato.
D’altronde, secondo il filosofo Alain Badiou, “risolvere i problemi esistenziali dell’amore è la grande gioia della vita”. Et nos cedamus amori, e anche noi cediamo all’amore. Perché, in fondo, è peggio l’indifferenza che la sofferenza.
E la festa di San Valentino rimane un rito di pura esultanza: mi godo la cena, la conversazione, la tenerezza, la sicura promessa di piacere. E risuona la domanda che ci pone Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso: non significa dunque niente, per voi, essere la festa di qualcuno?
(un estratto da “Che la forza sia con te! Esercizi di Popsophia”)