In attesa dell’incontro che si svolgerà domani (venerdì 16 giugno) alle ore 21.00 al Palazzo Datini di Prato (qui tutte le info), l’anticipazione del mio intervento sulla filosofia di Curzio Malaparte oggi in edicola con sul quotidiano “Il Dubbio“.
“La verità è che io non sono né peggio né meglio della mia stupida leggenda: ma sono diverso”, così scrive Curzio Malaparte – di cui quest’anno ricorrono i sessant’anni dalla morte – il più irrequieto e camaleontico autore del Novecento italiano. Kurt Erich Suckert, questo il suo nome alla nascita (a Prato nel 1898), ha incarnato tutte le virtù e i vizi degli italiani. Privatamente, un grande flâneur. Politicamente, un irriducibile voltagabbana. Fascista prima, comunista poi.
La critica, sopraffatta dalle leggende e dagli eccentrici aneddoti, si è scissa tra i difensori di un istrionico arcitaliano e i nemici di un opportunista spregevole. Nella dettagliata ricostruzione biografica delle cronache mondane del maledetto toscano, è rimasto però un cono d’ombra: si è perso il raffinato scrittore di classici della letteratura italiana e il sottile intellettuale protagonista del dibattito culturale europeo.
Oggi, liberi dalla maschera del personaggio e dalle polemiche dell’epoca, possiamo e dobbiamo rileggere le sue opere per recuperare il senso di un’identità duplice e contraddittoria che ha saputo raccontare tutte le luci e le ombre della condizione umana.
Malaparte è stato il consapevole testimone di un mondo frantumato. Le sue peregrinazioni intellettuali corrispondono ai frammenti di una deflagrazione. Nei visi degli uomini descritti nelle sue pagine – nei fanti e nei generali, nei borghesi e nei proletari – ritrova le ombre di uno stesso tramonto. Nei paesi che attraversa nei suoi viaggi – dalla Spagna alla Russia, dall’Argentina all’Etiopia – respira lo stesso insopportabile odore di decomposizione.
Nietzsche lo definirebbe uno “spirito libero”: un uomo che non appartiene a nessuna chiesa e affronta, spavaldo e malinconico, il nichilismo della sua epoca. Ma un vero spirito libero non può essere un intellettuale organico: né il pifferaio della rivoluzione né l’incensatore del potere costituito. Malaparte è un anarchico arlecchino, fedele solo a se stesso. Dall’elogio della sconfitta di Caporetto alla critica dei professionisti dell’antifascismo: Malaparte è un nobile traditore, non un menestrello dell’ideologia; un nemico della retorica, non un maître à penser. Sceglie sempre l’altra parte: la sponda della reazione, quando il potere è dei rivoluzionari. Il dubbio il suo unico Dio.
E se da intellettuale si impegna nel disgregare la futile retorica dei rivoluzionari da bar, da scrittore si ingegna a frammentare la realtà in visione onirica. Nelle sue opere letterarie, infatti, verità e menzogna si confondono, il sublime si mescola con il grottesco. In Kaputt, un viaggio surreale e crudele nell’Europa in guerra, tra sfarzose cene di gala e massacri di innocenti; ne La pelle, un nostos apocalittico in una Napoli di degrado fisico e morale come una Gomorra biblica.
Malaparte è uno scrittore senza dimora. Oscilla tra farsa e dramma, tra opera luttuosa e messinscena grottesca; alterna ghigno e sberleffo, risata e vergogna. Con lui è tramontata ogni funzione edificante dell’artista che, non potendo essere eroe, si fa buffone: “Quando vedo certe cose, mi vien da vomitare. E il mio divertimento è vomito”.
La narrativa malapartiana, in fondo, è uno sardonico viaggio nella crudeltà: viola ogni tabù estetico, incurante del disgusto che ne consegue. Non c’è nessun vincitore morale al quale aggrapparsi, perché tutti sono colpevoli, anche gli innocenti.
E oggi, chi vuole scendere nell’abisso dei romanzi di Malaparte, non troverà facile redenzione. Ne è emblema un episodio aberrante de La pelle. Malaparte, mentre sta cavalcando nella foresta per arrivare all’accampamento militare, sente dei lamenti umani tra gli alberi. Alza gli occhi e si accorge che quelle voci strazianti appartengono a uomini crocifissi: sopra di lui ci sono decine di ebrei inchiodati ai tronchi degli alberi. Si ferma sconvolto. Vuole aiutare quegli uomini agonizzanti. Stordito e oppresso dall’orrore, si solleva sulle staffe per raggiungere i loro piedi sanguinanti e li implora: “lasciate che vi schiodi dalle vostre croci”. Ma i rami gemono di una risata crudele: “Ah! Ah! Ah! – gridò l’uomo crocifisso – avete udito? Vuol toglierci dalla croce! E non se ne vergogna! Vorreste salvarvi l’anima, eh?”
Questa visione surreale è la migliore allegoria della nostra condizione. Nessuno ha il diritto di salvarsi l’anima chiudendo gli occhi di fronte alla sofferenza o commiserandola con ipocrita partecipazione. I compassionevoli, scrive Nietzsche, sono uomini senza vergogna e nessun uomo è abbastanza puro per permettersi la pietà.
Bisogna scendere impudicamente all’inferno per guardare l’orrore, anche quando si potrebbe rimanere al di là della soglia. Bisogna viaggiare nell’abisso, sapendo che i peccati dell’umanità non possono essere redenti da nessuna confessione.
Se ci immergiamo nella lettura di Malaparte, siamo costretti ad abbandonare la veste logora dei pregiudizi ideologici e morali, per indossare l’abito spudorato e provocatorio di un intellettuale irriducibile. E alla fine di questo lungo viaggio, al termine della notte, ci accorgiamo che il realismo magico delle opere malapartiane è capace di sciogliere la prigione di ghiaccio degli indignati e dei forcaioli che ingabbia il nostro universo.
La crudele ironia del suo stile svolge un’igiene mentale essenziale per il presente: impedisce che le nostre opinioni si trasformino in dogmatiche certezze. La realtà è sempre duplice, ambigua, incoerente, piena di ombre e di compromessi. E Malaparte è il farmaco che ci ricorda di essere la cassa di risonanza di questi chiaroscuri, la cattiva coscienza del nostro tempo a costo di pagarne le conseguenze. La coerenza della sua incoerenza è l’antidoto che ci allontana dalla retorica consolatoria di chi crede, cartesianamente, di avere tutte le risposte “chiare ed evidenti”.
Soltanto così, al termine della notte, si possono scorgere i raggi di una nuova alba: “il ritorno del sole dopo sì interminabile e angosciosa notte mutò l’orrore e il pianto in gioia e in festa”.