Il mio intervento dedicato a Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni in occasione del festival “Visioni di cine(ma) indipendente” dedicato ai 50 anni dal ’68 e organizzato dal Circolo del Cinema “Cesare Zavattini” in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria. Qui il programma completo degli appuntamenti dal 14 al 19 dicembre 2018.
“Sono pronto a morire, ma non di noia” dice sprezzante Mark durante un’accaldata assemblea di studenti in un campus universitario di Los Angeles. Così si apre Zabriskie Point, il film americano di Michelangelo Antonioni girato dopo l’incredibile successo di Blow-Up del 1966.
Con un cast di attori stranieri, con un budget faraonico e con più di due anni di riprese tra il 1968 e il 1970, Antonioni punta lo sguardo sull’America della contestazione. Il cineasta ferrarese – il poeta dei “tempi morti”, il regista della “alienazione”, il maestro della “incomunicabilità” – si confronta con la popular culture americana, con le agitazioni studentesche, il libero amore, la lotta violenta, la repressione sociale, la speculazione capitalista.
Zabriskie Point, però, non replica il successo della pellicola precedente.Anzi, è un clamoroso flop al botteghino e attira le critiche feroci della stampa americana. Antonioni si difende: “Non sono un sociologo, il mio film non è un saggio sugli Stati Uniti ma si situa al di sopra dei problemi precisi e particolari di quel Paese. Ha essenzialmente un valore etico e poetico”. Ed è seguendo questo consiglio, con uno sguardo libero da pretese sociologiche e politiche, che questo film continua a interrogare lo spettatore contemporaneo.
Zabriskie Point è un viaggio senza tempo. Un viaggio alla deriva in cui si incrociano le vite di un giovane rivoluzionario individualista (l’attore, per ironia della sorte, verrà realmente arrestato tre anni dopo le riprese per rapina e morirà in prigione nel 1975 a soli ventotto anni)e di una annoiata studentessa in fuga dal suo lavoro come segretaria e dalla relazione con il suo capo. Dal corteggiamento tra l’aeroplano rubato da Mark e la vecchia Buick della ragazza, inizia una fuga verso la libertà in cui è possibile ritrovare se stessi.
Zabriskie Pointnon è altro che un punto nella cartina geografica, un luogo dove finisce un viaggio-palingenesi in un’America incontaminata, il punto più alto della Valle della Morte dove guardare l’esistenza con occhi nuovi. Solo nel “punto Zabriskie”è possibiledar vita alla meravigliosa scena psichedelica di amore collettivo, interpretata dai membri della famosissima compagnia The Open Theatre. L’amore tra Mark e Daria è detonatore di una nuova energia capace di rivitalizzare una società spenta: si moltiplicano corpi di ragazzi nudi che si intrecciano tra loro in un’orgia onirica che si fonde con la sabbia, con la natura, con le note della chitarra di Jerry Garcìa dei Grateful Dead.
Una favola che culmina in un’apocalisse. L’utopia libertaria si identifica con i frammenti di una realtà esplosa. La scena che chiude il film, infatti, è rimasta indimenticata nella storia del cinema: una deflagrazione simbolica in cui salta in aria una splendida villa nel deserto e con lei si disintegrano tutti i simboli del consumismo della società di massa. Una detonazione distruttiva che si trasforma in catarsi estetica grazie alla musica ipnotica dei Pink Floyd, con un potente rifacimento di Carefull with That Axe Eugenedal titolo Come In #51, Your Time Is Up realizzato appositamente per il film.
Poco importa dei dialoghi impersonali, della bidimensionalità dei personaggi, dell’inverosimiglianza delle loro avventure: Zabriskie Point – ha scritto Alberto Moravia– è una “profezia biblica”. Antonioni è capace di dipingere poeticamente i contrasti tra la corruzione della metropoli babelica, piena di enormi pubblicità, palazzi traslucidi e bambole di plastica, e la bellezza incontaminata e pura del deserto, dove due moderni Adamo ed Eva tornano a nuova vita.
La rivoluzione culturale e studentesca esplosa nel ’68 – sembra ricordarci implicitamente l’opera di Antonioni a 50 anni di distanza –ha, prima di tutto, un impatto est-etico: è uno straordinario inno poetico e struggente alla libertà. Un’“Internazionale dell’irrequietezza”che elide il regime della proibizione della democrazia repressiva con una spinta erotico-libertaria. Il magma incandescente di una vita che – confessa Mark – non vuole far altro che “alzarsi da terra” anche se c’è il rischio di avvicinarsi troppo al sole.
Come ha scritto il sociologo Edgar Morin, che raccontò in diretta su Le Monde gli eventi del maggio francese, il ’68 fu una vera e propria “breccia culturale”: la possibilità di sfondare un muro attraverso l’affermazione di una controcultura capace di negare e di negarsi. Una controcultura incarnata da una nuova generazione che – con nuovi riti, nuovi linguaggi, nuovi stili, nuovi gusti – scarica in una società chiusa e repressa un desiderio impulsivo e indeterminato di libertà, azzerando per sempre i confini tra personale e politico.
La potenza estetica del ’68 è un’estensione del campo del possibile: nell’amore onirico di Mark e Daria c’è un fenomeno di veggenza in cui un’intera società vede all’improvviso ciò che essa contiene d’intollerabile. Un’estetica surreale che libera l’immaginazione dell’uomo ridotto “a una dimensione”, per parafrasare l’opera di culto di Herbert Marcuse.
Mossa da un malinconico spirito anarchico, la conclusione estetizzante di Zabriskie Point è puro situazionismo: una scorciatoia distruttiva e straniante verso l’utopia.
Risuona ancora, dal Quartiere Latino ai Gilets jaunes: “Sous les pavés, la plage! Sotto i sanpietrini, la spiaggia!”