Articolo apparso su l’Unità dell’8/11/2015
Felicità in famiglia
Ci sono più cose in televisione di quante ne sogni la filosofia.
“Sunday, Monday, Happy Days. Tuesday, Wednesday, Happy Days. Thursday, Friday, Happy Days”. Così canta la sigla di una delle serie tv più amate dal pubblico italiano che aveva come filo conduttore i “giorni felici” della famiglia Cunningham. “È arrivata la felicità”, invece, è il titolo dell’ultima fiction prodotta da RaiUno firmata da Ivan Cotroneo, Stefano Bises e Monica Rametta che gira intorno alle vicende di due famiglie allargate capitanate da Angelica/Claudia Pandolfi e Orlando/Claudio Santamaria. Da una sit-com americana anni ’70 a una fiction italiana del 2015, si ripropone lo stesso insistente binomio: famiglia e felicità, anzi, felicità in famiglia.
D’altronde, Aristotele nell’Etica Nicomachea ha scritto: “Una sola rondine non fa primavera, così neppure una sola giornata rende la beatitudine o la felicità”. Ipse dixit. In altre parole: se non basta una sola rondine per proclamare l’arrivo della primavera, tanto meno sarà sufficiente un solo giorno gioioso per considerare felice un’intera vita. Per valutare la felicità bisogna considerare la vita nella sua interezza. La felicità, cioè, implica la continuità e non l’intermittenza, la stabilità e non la fuggevolezza di un singolo attimo di godimento.
E se la felicità si calcola nella stabilità del susseguirsi dei “giorni felici”, il primo terreno per misurarla è quello delle relazioni sociali che strutturano la quotidianità. La prima felicità è nell’oikos, nella casa, nell’ambiente domestico. La famiglia, quindi, è il campo privilegiato per osservare i tentativi di costruire un modello di vita saldamente felice che esclude ogni elemento esterno di instabilità. Il nucleo familiare rappresenta, e continua a rappresentare, il modello di un luogo idilliaco dove sentirsi protetti e amati, al quale si contrappongono i pericoli della società esterna.
Dunque, felicità e famiglia, anzi, felicità in famiglia. Un binomio inossidabile che trova nella contemporaneità un potentissimo strumento di diffusione di massa: la fiction televisiva. Ai manuali di etica che prescrivono la “vera” famiglia felice, si aggiungono (o si sostituiscono) quelle straordinarie macchine creatrici di immaginario che sono le serie tv. Le fiction, infatti, sono il pennello più potente per dipingere un’idea di felicità condivisa basata su una dimensione di stabilità che si ripete serialmente, puntata dopo puntata, settimana dopo settimana, stagione dopo stagione.
E molto spesso, è proprio la famiglia il perno intorno al quale ruotano tutte le vicende, i malintesi, le incomprensioni, gli imprevisti, i problemi e le risorse delle vite dei personaggi della fiction. La famiglia è ciò di cui non si può fare a meno per strutturare l’orizzonte di senso di tutta la narrazione. Perfino le battute che costruiscono il geniale tempo comico della sit-com sono spesso riconducibili al contesto familiare: della famiglia si può ridere, ma solo per riconfermarne umoristicamente la sacralità. L’articolazione della vita felice, insomma, continua a dispiegarsi nella costruzione di un’armonia familiare, dall’etica di Aristotele alle sceneggiature delle serie tv.
Ma le fiction – anche se molti psicologi, sociologi, filosofi, giuristi, cardinali e politici che si accapigliano nel definire il modello di famiglia felice non se ne sono ancora accorti – non si limitano a prescrivere l’equivalenza felicità = famiglia. Se rimane salda l’idea della ricerca della felicità in famiglia, il contesto familiare di riferimento è in continua trasformazione. Le fiction sono il sismografo dei cambiamenti e delle metamorfosi della società di massa che ne fruisce. E dalla famiglia tradizionale degli anni Cinquanta di “Happy Days” composta da padre, madre e due figli siamo traghettati alla famiglia allargata degli anni Duemila di “Modern Family” con il padre che si è risposato con un’esplosiva colombiana di molti anni più giovane e il figlio gay che ha adottato una bambina vietnamita con il suo compagno.
Insomma, tutto deve cambiare affinché tutto rimanga com’è: felicità in famiglia.
Bentornata tv
E il cambiamento è avvenuto anche in Italia, dove il processo di secolarizzazione della famiglia tradizionale è inevitabilmente più lungo e difficile. Le famiglie protagoniste delle nuove fiction italiane – dai “Cesaroni” a “Tutti pazzi per amore” – compongono una modern family nostrana. Prendiamo un esempio paradigmatico tratto dalla nuova fiction iniziata l’8 ottobre su RaiUno “è arrivata la felicità”: la sorella della protagonista è fidanzata con una donna ed è incinta di cinque mesi dopo essere stata in Spagna per sottoporsi all’inseminazione artificiale.
L’omosessualità femminile – che finora non aveva mai avuto permesso di soggiorno nella fiction italiana – entra dalla porta principale, in prima serata sul canale principale del servizio pubblico, come normale ingrediente di una classica e banale commedia sentimentale in cui si mescolano equivoci, amori imprevisti e conflitti generazionali. Insomma, nell’immaginario dei milioni di persone che seguono la tv generalista è comparso, senza troppi traumi, ciò che sembrava irrappresentabile: una “famiglia felice” composta da due donne e un bambino.
Un episodio che fa impallidire la pretestuosa polemica intorno alla fantomatica “ideologia Gender”. Non sono bastati saggi scientifici e appelli documentati per scardinare i pregiudizi contro i “gender studies”: si tratta, in realtà, di un filone di ricerca riconosciuto da decenni in tutte le università del mondo che indaga la costruzione culturale dei generi, della mascolinità e della femminilità, con tutti gli stereotipi comportamentali e le disparità sociali che ne conseguono. Ma sono bastate poche puntate di una fiction made in Italy per comprendere che la famiglia non è un’entità naturale e immutabile, ma una costruzione fluida, in continua evoluzione, che cambia nel corso della storia e che ha molti modi di manifestarsi. Pur mantenendo salda l’aspirazione alla conquista del susseguirsi dei giorni felici: tutto è uguale anche se tutto è cambiato.
Si aprono domande sulle quali sarebbe utile riflettere in un tempo in cui si discute ossessivamente di famiglia. E se la decostruzione degli stereotipi si diffondesse proprio grazie alla tanto denigrata cultura pop (e non grazie agli appelli di piazza moralistici)? Se la terapia contro la durezza granitica dei pregiudizi fosse somministrata dalle fiction create dalla diabolica televisione (e non dal buonismo dei predicatori)? Se la lotta contro l’omofobia e la discriminazione si combattesse a colpi di fiction (e non a colpi di paludati convegni accademici)?
Le serie tv, come si è spesso condotti a credere, non hanno solo il compito di mantenere intatto l’ordine simbolico della “vita felice” tratteggiando un affresco familiare patinato e consumista che esclude la ruvidezza e la carnalità delle vite reali. Le fiction hanno anche una potente capacità di precomprensione: mostrano i cambiamenti sociali prima che si siano secolarizzati, immaginano una realtà felice alternativa prima che si sia normalizzata, con buona pace di chi vorrebbe definire a tavolino i contorni di una felicità pensabile solo nella famiglia tradizionale.
In televisione non vediamo solo ciò che siamo, ma siamo ciò che vediamo. E la battaglia per scardinare stereotipi e pregiudizi si gioca – anche e soprattutto – sul piano dell’immaginario. Le serie tv sono proprio il potente esorcismo di cui abbiamo bisogno: offrono, con la leggerezza della narrazione, rappresentazioni diversificate di molteplici esperienze familiari e genitoriali, neutralizzando la paura di ciò che è diverso dall’immagine tradizionale della felicità in famiglia.
Accendere la televisione, quindi, non è necessariamente un atto reazionario e retrogrado. Che lo si voglia o no, usare bene il telecomando può essere un’azione più efficace di una manifestazione, di un’occupazione, di una protesta. E se la felicità di una famiglia non tradizionale è arrivata anche nella televisione italiana, non è mai troppo tardi, chioserebbe il maestro Manzi.