La Ferragni di Botticelli

Il mio saggio per il catalogo della mostra “BOTTICELLI. Il suo tempo e il nostro” (Mart Rovereto | 22 maggio – 29 agosto 2021 | Silvana Editore) – “I canoni estetici cambiano nel corso dei secoli. L’ideale femminile della donna con i capelli biondi e la pelle diafana è un tipico ideale in voga nel Rinascimento. Magistralmente espresso alla fine del ‘400 da #SandroBotticelli nella Nascita di #Venere attraverso il volto probabilmente identificato con quello della bellissima Simonetta Vespucci, sua contemporanea. Ai giorni nostri l’italiana Chiara Ferragni, nata a Cremona, incarna un mito per milioni di follower – una sorta di divinità contemporanea nell’era dei social. Il mito di Chiara Ferragni, diviso fra feroci detrattori e impavidi sostenitori, è un fenomeno sociologico che raccoglie milioni di seguaci in tutto il mondo, fotografando un’istantanea del nostro tempo”.

Merita una citazione integrale il post Instagram del profilo ufficiale della Galleria degli Uffizi con Chiara Ferragni in posa davanti alla Venere del Botticelli, opera simbolo del museo. Torna in mente il paragone tra le curve vertiginose di Jayne Mansfield e quelle sinuose e immortali della Venere di Milo nella memorabile foto al Louvre scattata da Marilyn Silverstone nel lontano 1956. Ma il web ha la memoria corta ed è stato inondato da una tempesta di commenti di accusatori indignati e difensori convinti, tanto che gli #uffizi – per la prima (e ultima?) volta – sono andati in tendenza su Twitter.

Il coro degli indignati si è fatto sentire a gran voce: la foto della Ferragni agli Uffizi umilia l’arte del Rinascimento, Botticelli si sta rivoltando nella tomba, basta con la mercificazione dell’arte e con lo svilimento della cultura… O ancora: la colpa non è della Ferragni ma del sistema marcio che brandizza l’arte e confonde un museo da visitare con un’azienda che deve fatturare.

Di presunti intellettuali che alzano sdegnati il sopracciglio è pieno il web. La forza dell’insulto si autoalimenta nelle echo chamber dove sentiamo solo l’eco del nostro parlare, dove la nostra ira digitale è espansa da altre voci che si limitano a confermare ciò che già pensiamo.

I critici apocalittici 3.0 hanno avuto gioco facile nel cercare l’approvazione della loro “bolla” di followers e – come spesso accade a chi si prende troppo sul serio – sono diventati la parodia di se stessi. “Immondizia”, twitta il noto storico dell’arte. Ferragni “uccide il mito di Venere perché uccide la meraviglia”, sentenzia lo stimato editorialista. E giù con analisi marxiste a colpi di post su Facebook: sfruttamento del “pluslavoro”, “product placement da pulciari”, “poverismo pret-à-porter” e altre espressioni memorabili. Tutto condito con un po’ di sessismo malcelato per una biondina senza cervello “neanche troppo bella”.

Un triste esempio di come gli intellettuali nostrani, pronti a predicare bene in pubblico e a razzolare male in privato, vogliano il patentino di censori dei comportamenti altrui.

Mentre già nel 2015 Harvard apriva un case study per analizzare il successo del blog The Blonde Salad aperto nel 2009. Chiara Ferragni è stata la pioniera italiana della democratizzazione della Moda profanata dall’invasione delle fashion blogger; prima degli altri ha intercettato una tendenza che oggi è dilagante.  Un fenomeno complesso che oltre a rappresentare una professionalità inedita – quella dell’imprenditrice digitale – incarna molti dei cambiamenti dell’universo dei nuovi media che ci riguardano da vicino.

Mentre la polemica dai social si trasferisce alle pagine di “cultura&spettacolo” dei quotidiani, Ferragni posta lo stesso selfie museale svelando il motivo della sua presenza nel Tempio dell’arte italica: era a Firenze per uno shooting di Vogue Hong Kong connesso a un progetto di beneficienza e, per l’occasione, ha visitato gli Uffizi con la guida del direttore. In abiti Prada, Ferragni ha posato per Michal Pudelka, che gioca provocatoriamente con il tema della cornice che delimita una tela del Quattrocento così come inquadra il volto dell’influencer.

“Also guys now it’s the best time to visit museums and @uffizigalleries is one of the most special in the world”. In inglese, con il solito stile laconico ed entusiasta, senza filosofeggi sui canoni estetici, con qualche emoticon con cuori, Ferragni ha invitato i suoi follower a visitare “uno dei più incredibili musei del mondo”. Risultato: 550 mila apprezzamenti, tra post e stories, in poche ore.

La copertina del mio saggio “Filosofia di una influencer” (2020)

È proprio il direttore degli Uffizi Eike Schmidt ad annunciare fiero che – nel weekend successivo al passaggio sui profili della “divinità contemporanea nell’era dei social” – gli Uffizi sono stati visitati da 3600 tra bambini e ragazzi fino a 25 anni, contro i 2839 del weekend precedente, 761 in più, con un incremento del 27%. Una perfetta dimostrazione del nuovo ruolo degli influencer nello spazio pubblico: non sono solo fenomeni di marketing; non hanno solo il potere di orientare i consumi, ma influenzano anche i comportamenti e le opinioni dei loro follower. Più degli intellettuali, più dei politici. Gli influencer sono degli opinion leader e, volenti o nolenti, sono un tassello importante per plasmare il nostro immaginario e la nostra sensibilità. Ferragni parla spesso del “potere della condivisione” e dall’alto dei suoi oltre 20 milioni di follower lo ha ampiamente dimostrato dando vita – se vogliamo prendere in prestito proprio la metafora virologica – a un contagio positivo facendo diventare virale anche una visita al museo.

Ma neanche questo ferma l’indignazione: i dati sono gonfiati – dicono i detrattori – e anche se non lo fossero, i visitatori andati agli Uffizi per imitare Ferragni sono fruitori inconsapevoli e non il pubblico colto ed educato, degno di sostare davanti alla Venere senza tirare fuori lo smartphone dalla tasca.

Nel nobile tentativo di elevare le masse con ben altri esempi edificanti, questa schiera di nobili indignati ha mostrato un’arroganza moralizzatrice che sfida il senso del ridicolo. Il livello del dibattito sul “pubblico inconsapevole” – impregnato di italico paternalismo – sembra uscito dalle Vacanze intelligenti con Alberto Sordi e Anna Longhi in visita alla Biennale d’arte contemporanea di Venezia.

E chi decide circa i canoni della “consapevolezza culturale”? Ci si potrebbe stupire che non siano stati evocati i metodi infallibili che il professor Guidobaldo Maria Riccardelliutilizzava con gli impiegati della Megaditta fantozziana alle prese con la visione forzata della Corazzata Kotiomkin. Prima di puntare il dito contro gli altri, meglio guardare la trave nel nostro occhio: il nostro dibattito culturale è peggiorato, incagliato in ricette semplicistiche, ovvietà, retorica, pensieri stilizzati. Sicuramente non per colpa di Chiara Ferragni.

In controtendenza, il direttore Eike Schmidt per avvicinare i giovani ha fatto diventare virali gli Uffizi perfino su “TikTok” dichiarando: “Noi abbiamo una visione democratica del museo: le nostre collezioni appartengono a tutti, non solo a un’autoproclamata élite culturale, ma soprattutto alle giovani generazioni. È importante usare il loro linguaggio, intercettare la loro ironia e il loro potenziale creativo”. E per difendere Ferragni non ha remore ad usare la categoria del “puzzalnasismo”, stigmatizzando l’autocelebrazione di una cultura che si autodefinisce tale e che – da troppo tempo – non dialoga più con i cambiamenti dell’immaginario pop e popolare.

Ci ha pensato Fedez a scendere nell’arena social per difendere la moglie con argomentazioni più ragionevoli: sfilate e shooting nei musei non sono una novità (n.d.r. Chanel ha sfilato al Louvre, Gucci agli Uffizi, Fendi ha trasformato la Fontana di Trevi in una passerella e la lista sarebbe lunga…); non è la prima volta che un blasonato museo diventa location per fenomeni di cultura pop, basti citare Beyoncé e Jay-Z che hanno ambientato al Louvre il videoclip di Apeshit tra la Gioconda e la Nike di Samotracia e, da ultimo, il nostrano Mamhood che ha girato il video del singolo Dorado tra le sfingi del Museo Egizio di Torino. “Ditelo, vi incazzate solo perché è Chiara Ferragni” chiosa Fedez dal suo pulpito virtuale.

Ma Fedez si sbaglia: non si tratta di un argomentum ad homimem sobillato solo dall’odio per sua moglie e dalla voglia di avere qualche click in più. La diatriba è antica come il mondo.

Non è un caso che, nel post successivo, gli Uffizi rilancino la polemica consigliando la lettura di un classico dell’estetica del Novecento: il citatissimo saggio del filosofo Walter Benjamin L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica.

Se lo avessimo letto davvero, non ci staremmo ancora stracciando le vesti per la catastrofica perdita dell’aura dell’opera d’arte ridotta a immagine digitale condivisa sui social. Proprio Benjamin, in quelle pagine scritte all’inizio degli anni Trenta, ci ricorda che la percezione dell’arte non è mai pura, ma è sempre mediata e storica.

I cambiamenti non vanno sempre demonizzati, perché spesso nascondono conseguenze rivoluzionarie: l’opera d’arte riprodotta e riproducibile “viene incontro a colui che ne fruisce”, scrive Benjamin, e si avvicina al pubblico, rompe il valore elitario che faceva del museo un luogo sacro e inviolabile, lontano dalle masse e accessibile a pochi eletti.

“Chiara Ferragni è la figlia di Marina Abramovic e del Grande Fratello” ha giustamente dichiarato l’artista Francesco Vezzoli. Da un lato la performance art, dall’altro la tv spazzatura. Pensare l’esistenza come una continua performance sapendo che, nel Panopticon mediale in cui viviamo, siamo sempre osservati. E l’artista non ci ha pensato due volte a deformare i lineamenti della Madonna di Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato facendole assumere le sembianze di Chiara Ferragni per il settimanale Vanity Fair.

D’altronde, i meccanismi di imitazione e rispecchiamento che ci legano agli influencer ci dicono chi siamo. L’imitazione, lo ricordava già Aristotele più di 2500 anni fa nella sua Poetica, è un veicolo di piacere e conoscenza, una caratteristica ineliminabile, fisiologica e necessaria del comportamento umano. Tutte le generazioni hanno sognato di assomigliare ai loro idoli, hanno cercato modelli a cui ispirarsi (siano essi icone della bellezza classica, protagonisti dello star system o contemporanee fashion blogger). L’universo della Ferragni rappresenta lo specchio di ciò che accade nella vita di ciascuno di noi: siamo tutti coinvolti nella costruzione quotidiana della nostra identità. Essere nel mondo oggi vuol dire partecipare a un costante processo di autorappresentazione. Siamo tutti perennemente “in mostra”.

In un momento straordinario di “arte televisiva”, Andy Warhol partecipa al Saturday Night Live. Andy è ripreso di fronte allo specchio della sala trucco e, mentre si mette il cerone, parla del carattere effimero della bellezza. Dopo pochi secondi, l’immagine si sgrana e il volto di Andy scompare lentamente nella trama di pixel, fino a diventare irriconoscibile. Una sparizione mediale come contrappunto ai 15 minuti di celebrità (o ai 15 secondi di una storia Instagram): i media non danno solo visibilità, ma offrono e tolgono riconoscimento. a tutti noi, protagonisti e spettatori della società dello spettacolo.

La bellezza dell’influencer, come la bellezza delle icone sacre, è il riflesso di una dimensione innaturale che non si focalizza sul volto ma sul trucco. Lelabbradi Chiara, come quelle di Marylin ritratte da Andy Warhol,non sono “baciabili ma fotografabili”.  Una bellezza che non esiste in sé ma ha a che fare con il suo uso, si legittima nella sua spendibilità: “Quando vedi la bellezza conta il posto, contano i vestiti, cos’hanno vicino, com’è il guardaroba da cui provengono” scrive Andy Warhol.

Forse nella sempiterna corsa al conformismo del pensiero – in cui non esistono sconfinamenti, sovrapposizioni, contaminazioni – ci siamo dimenticati che la storia dell’arte non è altro che una serie continua di disturbanti e provocatorie profanazioni.