LA DIRITTA VIA 7 / Le ragioni dell’ira

Umberto Boccioni, Rissa in Galleria [particolare]

La settimana puntata della mia rubrica “La diritta via”, l’articolo è uscito su “Il Riformista” giovedì 25 marzo, in occasione delle celebrazioni del Dantedì – Tra “sudice onde” Virgilio e Dante giungono in una palude mortifera, piena di “fummo” che impedisce la vista. Ci sono “genti fangose in quel pantano”. I dannati sono nudi, immersi nella melma e con il volto corrucciato; si percuotono con le mani, con il petto, con i piedi e si sbranano a vicenda dilaniandosi le carni a forza di morsi. 

L’anime di color cui vinse l’ira”. Virgilio svela a Dante l’identità dei dannati del quinto girone dell’inferno: gli iracondi, coloro che sono stati “vinti” dall’ira, uno dei sette peccati capitali. Per contrappasso, all’inferno sono consumati dalla loro stessa ferocia, smembrati dalla loro stessa furia. 

Gli iracondi, immersi nella palude Stigia, si dimenano e si azzuffano nel fango come fanno le bestie. Una punizione degradata e degradante che colpisce chi in vita non ha saputo controllare gli impulsi ferini e non ha tenuto a freno gli istinti animaleschi. “Qui staranno come porci in brago”, nel fango come maiali. 

I dannati descritti da Dante alla fine del canto VII e all’inizio del VIII hanno ancora il “sembiante offeso”. Essere preda dell’ira, infatti, non è qualcosa che si può nascondere alla vista. A differenza dell’odio e del risentimento, l’ira è visibile, si mostra con dei ‘sintomi’ perfettamente riconoscibili. L’ira trasforma il colorito, accelera il battito, storpia la voce. “Le altre passioni si possono nascondere o nutrire in segreto, l’ira invece si evidenzia chiaramente nell’aspetto e ribolle in maniera tanto più evidente quanto più è grande” scrive Seneca nel suo famoso trattato contro l’iracondia.

Ben prima del girone dantesco, la passione furente ricopre un ruolo centrale della nostra tradizione culturale. Basterebbe ricordare che “menis”, l’ira sacra, è la prima parola della letteratura occidentale, l’incipit dell’Iliade. L’ira di Achille, la sua reazione adirata dopo l’offesa subita da Agamennone, è l’energia che muove l’intera narrazione omerica. L’etimologia di “menis”, infatti, è legata al verbo me-mne-mai che vuol dire “tenere a mente”, “ricordare”. L’ira è memoria dell’offesa ricevuta, motore di una violenza in cerca di vendetta. 

Tanto è forte e duratura, che gli iracondi la mantengono scritta sul volto anche dopo la morte. Anche l’anima di Achille che vaga nell’Ade, come narra Omero nell’Odissea, è ancora preda dell’ira: “se tornassi per un solo momento alla casa paterna – rivela l’eroe perito a Troia – farei pesare il mio furore e le mie mani invincibili”.

L’ira è la passione più temibile perché ci fa perdere il dominio di noi stessi. L’iracondo perde la capacità di autocontrollo, non è più padrone delle sue azioni e dei suoi pensieri. Chi si lascia dominare dalla parte dell’anima irascibile abbandona i freni della ragione e si lascia andare a reazioni istintive e brutali. 

Non si tratta, però, di una passione soltanto umana. Anche le divinità non ne sono immuni ed è proprio per contenere l’ira deum che gli uomini fanno continui sacrifici e si percuotono il petto in infinite suppliche. 

Per non parlare del Dio dell’Antico Testamento: iroso, sempre in collera per il comportamento degli uomini, furioso per la loro continua ribellione, vendicativo e punitivo. Il riferimento all’ira di YHWH compare in ben 518 casi. 

E al di là della visione edulcorata che abbiamo del Vangelo, non mancano le testimonianze dell’ira di Gesù che, visibilmente irato, caccia i mercanti dal tempio. “Non sono venuto a mettere pace, ma la spada”, leggiamo nel Vangelo secondo Matteo. La Buona Novella ha un carattere conflittuale, è una dichiarazione di guerra contro chi non prende posizione, contro chi rimane tiepido e non si adira contro l’ingiustizia. Anche nel Paradiso dantesco San Piero confessa “io sovente arrosso e disfavillo”, bruciante di rabbia contro Bonifacio VIII.

È Aristotele a fornire alla teologia – e allo stesso Dante – la giustificazione razionale dell’ira “giusta” di Dio e degli uomini virtuosi. L’ira – secondo l’autore dell’Etica Nicomachea che si è meritato l’appellativo di defensor irae – non è un vizio che va sanzionato in assoluto, ma una passione che va giudicata relativamente alla gravità dell’offesa ricevuta. L’ira va condannata solo se si trasforma in iracondia sproporzionata e mal direzionata. L’ira contro l’ingiustizia, invece, non solo è legittima, ma anche doverosa e virtuosa; “è atteggiamento da schiavi il sopportare l’oltraggio e far finta di nulla se gli amici sono insultati”.  

Questo vale per i cittadini indignati della polis democratica a cui si rivolge Aristotele, ma anche per le masse arrabbiate delle rivolte popolari della storia moderna: soltanto l’ira riesce a mobilitare le folle e ad attivare rivolgimenti politici e rivoluzioni sociali; è una spinta pulsionale necessaria per far attecchire il cambiamento. L’ira, scrive il filosofo Peter Sloterdijk, “apre agli uomini la strada sulla quale essi fanno valere ciò che hanno, possono, sono e vogliono essere”.   

Esistono, dunque, delle “ragioni” della più irragionevole delle passioni. Ma chi stabilisce il confine tra l’ira giusta e l’ira ingiusta, tra il peccato e la virtù, tra il torto e la ragione?   

Torniamo a Dante e Virgilio che attraversano la palude su una piccola barca guidata dall’iracondo Flegias, un “galeoto” mutuato da un personaggio mitico dell’Eneide virgiliana. Dal mare buio e melmoso emerge un dannato che si attacca alla barca e tenta di rovesciarla. “Via costà con li altri cani!” lo respinge Virgilio. 

Chi è questo “spirito maladetto” che turba il viaggio dantesco? 

Ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto”: il poeta riconosce Filippo Argenti, un fiorentino “bizzarro” campione di superbia e rissosità, simbolo di una città “partita”, lacerata in una perenne guerra civile tra fazioni irascibili. Filippo Argenti in terra fu “persona orgogliosa”, la sua arroganza tracotante ha lasciato solo ricordi negativi. E “lasciando orribili dispregi” ha meritato una degna punizione.

Inizia una vera e propria rissa verbale tra l’Alighieri e l’Argenti. Gli interpreti hanno giustificato l’acrimonia del diverbio con motivazioni private legate alla biografia dantesca, sembra ci sia dietro una brutta storia di inimicizia tra famiglie con tanto di schiaffi in pubblico e beni confiscati. 

In effetti, la reazione di Dante, come sottolinea il Momigliano, “ha qualcosa di satanico”. Il sommo poeta non solo non nasconde il suo compiacimento nel vedere il nemico umiliato, ma esplicita a Virgilio il suo voluttuoso desiderio di vendetta: Molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago”.

Prima potente e temuto, ora impotente e degradato, Argenti è solo un’ombra “furiosa” di chi era stato in vita.  Nessuna tristezza e nessuna pietà, ma un’inusitata crudeltà punitiva: Dante vuole vedere il suo avversario sprofondare nel fango tra le fauci degli altri dannati. 

Un brutale revanchisme che desidera e pretende vendetta. E Virgilio lo approva tanto da suggellare il momento con un abbraccio e un bacio: “convien che tu goda”. 

E così sia. I compagni di tortura, “le fangose genti”, si avventano sul corpo di quel fiorentino bizzarro, lo fanno a brandelli gridando furiosamente “A Filippo Argenti!”. E Argenti sconfitto finisce per scaricare la sua foga contro se stesso fino all’autodistruzione e “si volve in se medesimo coi denti”.

Dante di fronte a “quello strazio” si gode felice lo spettacolo. “Dio ancor ne lodo e ne ringrazio”, e ringrazia ancora Dio per avergli concesso un piacere sì duraturo. “Quivi li lasciammo, che più non ne narro” chiosa Dante passando oltre. 

L’incontro con Argenti, però, continua a tormentare i lettori contemporanei. 

Dante si autoassolve – lo sdegno del giusto di fronte all’ira “mala” – e noi siamo tentati di assolverci con lui, ma qualcosa non torna. È facile condannare l’ira altrui come passione accecante e violenta, come istinto bestiale e altezzosa superbia. E, viceversa, difendere la nostra ira apostrofandola come “giusta”, legittimando implicitamente le nostre reazioni crudeli e vendicative che non fanno altro che riprodurre l’atteggiamento vizioso che inizialmente volevamo contestare. 

Per questo Caparezza, nella canzone Argenti vive dedicata all’iracondo fiorentino rappa: “Persino tu che mi anneghi a furia di calci sui denti, ti chiami Dante Alighieri, ma somigli negli atteggiamenti a Filippo Argenti!”. Tra l’ira virtuosa di Dante e il peccato capitale di cui si è macchiato l’Argenti sembra esserci un legame inscindibile. 

La scontro ad armi impari nel mezzo dell’infernale palude fangosa ci mostra la vera natura dell’ira, ci svela ciò che – indipendentemente dalle sue giustificabili motivazioni – la rende così seducente ai nostri occhi: il piacere sadico della vendetta.  

Lo aveva già rivelato Aristotele: “Ogni manifestazione d’ira è accompagnata da un certo piacere che deriva dalla speranza di vendicarsi. Si passa il tempo a vendicarsi con il pensiero, e l’immagine che ne nasce genera piacere come accade nei sogni”. E Dante ci mostra spudoratamente la sua sete di vendetta e, al contempo, la fantasia del suo appagamento. 

Non è difficile riconoscere un atteggiamento di cui siamo spesso protagonisti. Come Prospero nella Tempesta di Shakespeare, mettiamo spesso in scena un nostro ‘teatro della vendetta’ per sublimare la nostra indignazione, per avere un appagamento allucinato del nostro desiderio di rivalsa. Sognare di punire l’altro – non importa se in un’invettiva poetica o in un tweet al vetriolo – è un modo per ristabilire metaforicamente la nostra superiorità e rimarginare la ferita del nostro ego. 

Il sommo poeta non poteva sapere che, qualche secolo più tardi, il godimento spietato della vendetta giustificato dall’ira ‘bona’ avrebbe saturato la vita quotidiana nell’attuale società digitale. 

L’indignazione totale, come la chiama il filosofo francese Laurent de Sutter, ha contagiato ogni spiraglio dell’odierno spazio pubblico. Siamo costantemente immersi in un duello mortale tra iracondi accecati dalle proprie ragioni. Il dibattito è un litigio rabbioso in cui è importante contrastare l’avversario a partire da una posizione di superiorità: la mia fazione è quella che ha “ragione”, quella indignata “giustamente”, quella che contrasta “l’ira mala”. 

Ci illudiamo di essere autenticamente adirati per l’ultimo scandalo moralmente deprecabile, in realtà siamo alla ricerca di uno scampolo di piacere, di un appagamento narcisistico che nulla ha a che fare con la giustizia. Con le fauci schiumanti, siamo in attesa di un brandello di carne altrui per alleviare la nostra irata frustrazione, per placare le richieste del nostro ego ferito.

Siamo convinti di avere un posto sulla barca dei moralisti sdegnati con il dito puntato contro le “genti fangose” e non ci accorgiamo che stiamo annaspando con loro nel sudiciume di “quel pantano”.