La sesta puntata della rubrica “La diritta via” su Il Riformista di venerdì 12 marzo 2021 – “Pape Satàn, pape satàn, aleppe!” grida Pluto, l’antico dio che protegge la ricchezza, alla vista di Dante e Virgilio. Il primo verso del canto VII dell’Inferno risuona come un’ingiunzione demoniaca e incomprensibile. La sua traduzione rimane oscura e continua a far discutere gli interpreti. Sarà per questo che il verso nonsense dantesco – un’invocazione satanica o un’ironica preghiera – è anche il titolo all’ultimo libro di Umberto Eco. Pape satàn, aleppe! è un grido inquietante e confuso che interpreta bene lo smarrimento dell’individuo contemporaneo che abita l’attuale società liquida.
Ma torniamo a Dante e Virgilio. Messo a tacere il “maledetto lupo” guardiano del girone, i due viaggiatori entrano nel IV cerchio infernale. “D’una parte e d’altra, con grand’urli, voltando pesi per forza di poppa”, i dannati sono impegnati a spingere dei grandi massi con la forza del petto.
Dante descrive una sorta di danza eterna semicircolare. I peccatori sono separati in due schiere e si muovono in cerchio in direzioni opposte. Si incontrano a metà strada, si girano, e ricominciano a spingere il masso dall’altra parte. Così come “sovra Cariddi”, al centro dello stretto di Messina, si scontrano le onde di due mari, così i due gruppi di peccatori si infrangono, condannati a un ritmo sempiterno che li fa scontrare e poi separare.
Ma ogni incontro è foriero di reciproche ingiurie: “Perché tieni?” dice un gruppo, “Perché burli?” ribatte l’altro.Ecco, quindi, svelata la colpa di cui si sono macchiati: da una parte il gruppo degli avari che ‘tiene’ stretto il denaro, dall’altra il gruppo dei prodighi che ‘burla’, sperpera e dilapida.
La pena dantesca richiama l’inane fatica a cui Zeus condannò Sisifo, il titano ribelle costretto a spingere dalle pendici di un monte un masso che, una volta in cima, ricade di nuovo a valle. Ogni sforzo è vano, la fatica di Sisifo è destinata a ripetersi in eterno senza ottenere alcun risultato, se non il ripresentarsi immutabile della situazione di partenza. E come lui, gli avari e i prodighi spingono il masso in una direzione e poi nell’altra, senza giungere a nessun cambiamento. Il contrappasso per una vita senza scopo, dedicata ad accumulare o dissipare i volubili beni terreni.
“Mal dare e mal tenere”. Il IV cerchio punisce coloro che fecero un cattivo uso del denaro. “Tutti quanti – spiega Virgilio – fuor guerci”. Avarizia e prodigalità sono il risultato di uno strabismo della mente, di un errore di misurazione. Arricchimento e spreco, conservazione e dissipazione sono due estremi lontani dal giusto mezzo e conducono allo stesso triste destino. Un peccato per eccesso e uno per difetto, per entrambi la stessa amara punizione. “Est modus in rebus, c’è una misura nelle cose” sentenziava Orazio, gli avari e i prodighi sono peccatori della dismisura.
Dante ha “lo cor quasi compunto”, la visione di questo “cerchio tetro” gli crea un forte turbamento. Forse perché si accorge che il gruppo sulla sinistra, quello degli avari, è composto da tutti “cherci” con il capo rasato, “papi e cardinali in cui usa avarizia il suo soperchio”. Nessuno di essi viene nominato. Uomini delle alte gerarchie ecclesiastiche che sono talmente “sozzi”, insudiciati dalla cupidigia, da essere ormai “bruni”, oscuri e irriconoscibili.
Proprio l’avarizia, dalla tarda antichità, è considerata la radice di tutti i mali. Secondo la celebre definizione di San Paolo, Radix Omnium Malorum Avaritia, da cui l’acronimo ROMA per indicare il vero motivo del declino e della caduta dell’Impero Romano.
Ma è con la rivoluzione commerciale dell’XI secolo che l’avarizia è condannata senza appello. “L’antico primato teologico della superbia cede al sempre più forte coro di proteste, che imputano alla crescente avarizia tutta la nequizia dei tempi” scrive Huizinga nel suo L’Autunno del Medioevo. Non è un caso che Ambrogio Lorenzetti nella sua Allegoria del buon governo indichi proprio l’avarizia come causa della disarmonia e del malgoverno della città.
L’avarizia è il vizio capitale che caratterizza la figura di spicco della nuova struttura sociale ed economica: il mercante. La nascita della città, lo sviluppo del commercio, l’espansione dei mercati, l’utilizzo della moneta nelle transazioni economiche, la pratica dell’usura. “Il mercante diviene un mestiere pericolosamente esposto al vizio dell’avarizia, dal momento che il sovrappiù generato dall’attività di scambio incentiva un’inclinazione senza limiti per il guadagno” scrive l’economista Stefano Zamagni in Avarizia, la passione dell’avere.
Con il favore degli ordini mendicanti domenicani e francescani e le loro spinte pauperistico-evangeliche, si diffonde in tutta Europa una temperie etico-religiosa che segnerà per sempre il senso dell’Occidente per il denaro. Il guadagno ha un’aura peccaminosa, l’arricchimento deve accompagnarsi al senso di colpa, la borsa piena d’oro traina gli uomini all’inferno. “Sterco del diavolo”, il famoso anatema di San Basilio Magno, ripreso da Jacques Le Goff nel titolo di un libro sulla storia del denaro.
Insomma, la retorica del demoniaco “turbocapitalismo” servo del vil denaro ha radici lontane e padri nobili.
Un retaggio medioevale duro a morire. Per allontanare l’ombra dei “chierci sozzi” e per rinvigorire l’immaginario di una “chiesa povera e per i poveri”, l’attuale Papa ha scelto proprio il nome di Francesco. “La ricchezza è lo sterco del diavolo” ha tuonato in un angelus da Piazza San Pietro. D’altronde, è più facile che un cammello passi nella cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli…
Ma proprio sul finire del Medioevo spicca la voce di un umanista fuori dal coro: l’avarizia da vizio teologico può trasformarsi in virtù civile. Poggio Bracciolini, nel 1424, scrive nel De Avaritia che l’avaro è anche “forte, prudente, d’animo grande”. Inizia un lungo (e incompiuto) percorso di secolarizzazione che si allontana dal piano della morale religiosa. Anche l’avarizia è “utile e necessaria” per incentivare lo spirito produttivo; se l’avaro perseguendo il proprio interesse favorisce “progresso economico e avanzamento civile”, il suo non è più un vizio antisociale da biasimare. È sul quel filone che la Favola delle api di Mandeville, nel secolo dei Lumi, trasforma i vizi privati in pubblici benefici. Proprio le api egoiste e avare, nel perseguire i loro interessi, contribuiscono al benessere di tutto l’alveare. In una società che voglia definirsi laica e moderna, interesse personale e interesse collettivo non sono alternativi.
Gli avari e i prodighi puniti severamente da Dante, però, ci insegnano una verità sempiterna sul nostro rapporto con il denaro. I soldi sono molto più che un semplice mezzo per raggiungere una quantità potenzialmente infinita di fini; il valore del denaro non è legato soltanto a ciò che con esso si può o non si può acquistare.
Il denaro – spiega lucidamente Georg Simmel nella sua Filosofia del denaro – è esso stesso il fine ultimo, “è oggetto di timorosa attenzione, è un tabù”, produce un appagamento simile “alla pace dell’anima che s’è conseguita dopo aver trovato Dio”.
Il denaro da mezzo diventa fine. E come ha dimostrano la contemporanea neuro-economia, il denaro attiva gli stessi centri nervosi associati agli stimoli corporei piacevoli: i soldi sono in sé stessi fonte di piacere.
Il “disturbo da accumulo” che caratterizza la passione dell’avaro mostra in chiave patologica questo inevitabile capovolgimento. L’avaro custodisce senza mai spendere, sacrifica i suoi bisogni e i suoi desideri per preservare intatto il suo patrimonio.
L’avarizia, dice Bernardo da Chiaravalle, “è un continuo vivere in miseria per paura della miseria”. Un ossessivo trattenimento che non sfocia mai nel godimento; un trattenere senza rilasciare che rimanda sempre il piacere.
Come l’Arpagone di Molière, l’avaro protegge la sua ‘cassetta’, conta e riconta i suoi denari; mai e poi mai affronta il rischio di scalfire il suo patrimonio. Il vero avaro non assomiglia affatto al mercante e all’imprenditore intraprendente che investe i suoi soldi: il vero avaro non usa ciò che possiede per non rischiare di perderlo.
Tutte le passioni e tutte le attività dell’avaro si riducono all’avarizia stessa. Karl Marx ha descritto meglio di chiunque altro la vita ascetica e misera a cui si condanna l’avaro: “Rinuncia a sé stessi, rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all’ osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi eccetera, tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai.”
Il rapporto dell’avaro con il denaro, secondo Freud, è davvero legato allo ‘sterco’. Non lo sterco del demonio, ma le feci dell’uomo stesso. L’avarizia, dice il padre della psicanalisi, è una fissazione della libido nella sua fase anale. Il rapporto con il denaro e quello con le feci hanno delle assonanze; l’avaro chiude il denaro in cassaforte e costudisce i propri beni come lo stitico trattiene le feci invece di espellerle e “donarle” al mondo.
L’arte, la letteratura, il cinema ritraggono sempre un avaro caricaturale simile allo Scrooge di Canto di Natale di Dickens: vecchio, solo e incapace di relazionarsi al prossimo. Ma in quelle pose ridicole, c’è la chiave di una fragilità da cui non siamo estranei.
Il denaro, ancora una volta, è investito di grandi significati simbolici e l’avarizia non è altro che un campanello d’allarme di una paura patologica. Al pericolo dell’incontro con il mondo e al rischio dell’incontro con gli altri, l’avaro preferisce il rapporto stabile con la solidità della moneta, un possesso solitario ed egocentrico che non prevede relazione alcuna e, per questo, non delude mai.
Che cos’è l’avarizia se non una manifestazione della paura paralizzante della perdita? L’avaro ha terrore del futuro, accumula e non consuma per contrastare l’instabilità ventura, protegge il suo tesoro e così ha l’impressione di poter di controllare l’incertezza dell’avvenire. Risparmia oggi per poterne godere in un domani che non arriverà mai. L’avaro si mette al riparo dalle intemperie e dalle frustrazioni, si isola per proteggersi dal contatto con gli altri.
Ma dietro la paura di perdere “la roba” c’è un ben più grande spauracchio. Lo dimostra perfettamente il contadino Mazarò, il protagonista della meravigliosa novella di Verga La roba, che strilla: “Roba mia, vientene con me!”. O lo stesso Mastro don Gesualdo che “voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui”.
L’avaro è riuscito a sfuggire a tutte le perdite, ma non può sfuggire alla perdita ultima, la più temuta di tutte: quella della vita. Tutte le casseforti del mondo non bastano per esaudire il suo vero desiderio: trattenere la vita e sconfiggere la morte. Ecco la vera hybris, ecco il vero peccato di cui si macchia l’avaro: non accettare la condizione umana, rifiutare la propria mortalità, voler essere come Dio.
L’avaro, insomma, ci mette a contatto con una tentazione che oggi ben conosciamo: evitare di vivere per paura di morire.
Ma Dante ci indica una via d’uscita: il genere umano “si rabuffa” per il denaro, ma è una “buffa”, un inganno. Gli avidi e i prodighi, ci ricorda il Poeta, peccano di ignoranza perché non sanno che i beni terreni “son commessi a la fortuna”. Il denaro passa da un popolo all’altro, da una famiglia all’altra, da una persona all’altra per ragioni che non conosciamo e che non possiamo governare, secondo un ritmo dettato da quella che Virgilio chiama “Fortuna”.
“Le sue permutazioni non hanno tregue”: non possiamo metterci al riparo dalle rapide e imperscrutabili “permutazioni” della sorte. L’avidità vorace con cui consumiamo o l’egoismo con cui accumuliamo ci fanno dimenticare che quei beni su cui tanto ci affanniamo sono transitori e volubili. Il tesoro gelosamente costudito nella cassetta di Arpagone potrebbe di colpo essere carta straccia.
In questa fase storica, questi versi risuonano più veri che mai. Ci sentiamo più esposti alla precarietà e più impotenti di fronte alle alterne vicende della fortuna. Per quanto ci siamo sforzati di evitare i rischi e di prevedere le tempeste, non eravamo equipaggiati contro i repentini rivolgimenti della sorte che, in meno un anno, ha cambiato le vite di molti.
E allora non ci resta che continuare a spostare il masso in cima alla vetta, senza sperare che l’eterna pena si interrompa. “Bisogna immaginare Sisifo felice” ci consola Albert Camus.