“Di Logos e Like”. Conversazione con Stefano Bigliardi sulla rivista “L’atea”

Un estratto dell’intervista che mi ha fatto Stefano Bigliardi (docente di Filosofia e Storia delle Idee presso l’AUI, università pubblica in Marocco) per il secondo numero di “L’atea, rivista di cultura atea, agnostica e razionalistica” (www.rivistaatea.it), la conversazione integrale si può leggere qui!

Stefano Bigliardi (SB): “Che cosa significa popsophia, che cosa caratterizza le tue indagini e attività filosofiche? Porti la filosofia fuori dalle accademie oppure fai di ciò che è pop un oggetto accademico? E in ogni caso, perché questa scelta?”

Lucrezia Ercoli (LE): “Quando abbiamo scelto questo termine come nome del nostro festival, nel 2009, ‘Popsophia’ era un vero e proprio ossimoro, rappresentava una contraddizione, un tentativo spudorato e provocatorio nell’universo degli eventi italiani dedicati alla cultura ‘alta’ e alla filosofia. Sicuramente un primo significato di è quello di ‘filosofia popolare’: una filosofia che torna in piazza, con filosofe e filosofi che parlano a una vasta platea di non addetti ai lavori e si sforzano di utilizzare un approccio diverso da quello, spesso asfittico, delle accademie.  Ma lo sforzo che facciamo al festival va oltre questo approccio extra-accademico. ‘La filosofia è in un rapporto essenziale e positivo con la non-filosofia: essa si rivolge direttamente ai non-filosofi’ diceva Gilles Deleuze, padre della pop philosophie. Popsophia, dal mio punto di vista, vuol dire estendere lo spazio d’azione della filosofia. È necessario dare spazio a una nuova generazione di giovani studiosi e artisti, per la maggior parte (colpevolmente) esclusi dalle università italiane. Bisogna entrare nella trama narrativa della nostra cultura, scegliere nuovi oggetti di interesse, confrontarsi con l’immaginario del nostro tempo, lasciarsi interrogare dai nuovi miti e dai nuovi riti della nostra contemporaneità. E, non da ultimo, esplorare nuovi linguaggi e nuovi format. Dal punto di vista editoriale, la popsophia torna a esplorare forme alternative al saggio accademico. Durante il festival lavoriamo costantemente alla costruzione di format alternativi alla classica lectio magistralis del filosofo mainstream. Negli ultimi anni abbiamo costruito il ‘philoshow’, una sorta di concerto pop filosofico dove il pensiero si fa spettacolo, un mash-up che unisce musica dal vivo, montaggi cinematografici, regia televisiva e performance teatrali. Sono convinta che la (pop)filosofia debba lasciarsi provocare dal presente e, perché no, provocare il presente a sua volta”.

(SB): “In certi passaggi della tua analisi sembra che il fenomeno Ferragni non faccia che estendere e amplificare elementi di figure del passato pre-new media: Mike Bongiorno analizzato da Umberto Eco, la Brigitte Bardot di cui scriveva Simone de Beauvoir… Riconduci alcune delle sue caratteristiche anche a figure, narrazioni e concetti religiosi (cfr. p. 87), quindi vecchi come l’umanità. Ma in questa figura, e in quelle analoghe, c’è, rispetto al passato, solo un aumento numerico in termini di visibilità, rapidità, incassi (i 15 minuti di celebrità di Andy Warhol diventati 15 secondi) oppure c’è anche in atto un mutamento, per così dire, di specie?”

(LE): “Con i new media sicuramente abbiamo assistito ad un vero e proprio ‘cambio di paradigma’ per quanto riguarda il modo di intendere il successo. È completamente sdoganata l’idea che la fama non sia connessa a delle qualità determinate. La rete ha invertito la rotta: se prima si andava dal mondo dello spettacolo a quello delle celebritiesinfluenti, oggi il percorso (anche se non sempre) parte dalle influencer e arriva allo star system. Un successo che nasce dal basso: dal gradimento dei pubblici connessi e dai mille piani multimediali. 

La possibilità di immedesimarsi nell’american dream di una ragazza qualunque è una delle chiavi del successo del suo mito prêt-à-porter. Un culto basato sulla simulazione di una normalità eccezionale in cui è facile identificarsi. Tutto è narrato all’interno dei codici dell’ordinario. L’everywoman, una comune mortale, entra a corte e conquista il trono. Anche la vita di coppia dei Ferragnez è iscritta nel paradigma narrativo della normalità. Nessun eccesso, nessuna perversione, nessuna dipendenza. Né alcol né droghe. La normalità ordinaria di una coppia di giovani genitori che si dispiega in un contesto straordinario. L’antitesi della vita spericolata dei divi d’antan.

Però il divismo è sempre esistito: paragonare fenomeni contemporanei con fenomeni del passato, anche recente, è utile per capire meglio la nostra esigenza di creare ‘idoli’ e venerare ‘divi’.

Anche l’odio è un sentimento antico e ineliminabile, ma il web è un megafono che ha esteso a dismisura le sue potenzialità: una disinvoltura alimentata dall’assoluta mancanza di responsabilità garantita dall’indistinto popolo della rete. La forza dell’insulto si autoalimenta nella nostra echo chamber dove sentiamo solo l’eco del nostro parlare, viviamo in una bolla nella quale rimbomba la nostra ira digitale, espansa da altre voci che si limitano a confermare ciò che già pensiamo. 

L’universo dei social sempre diviso tra follower ed haters, una dicotomia funzionale ad allargare l’impatto mediatico del messaggio. Gli influencer sanno benissimo che quando si odia così tanto una cosa inevitabilmente non si è più separati da lei, odiare vuol dire stabilire un legame indissolubile. Il vero spettro temuto dall’influencer è l’indifferenza. 

Per decifrare queste mutazioni del presente, credo che l’approccio della pop filosofia sia utile proprio perché capace di costruire ponti tra discipline apparentemente lontane e di intuire connessioni tra passato e presente. È importante evidenziare le differenze ma anche sottolineare i punti di continuità che rintracciano ‘archetipi’ che continuano a puntellare la storia dell’umanità.Un mio punto di riferimento stilistico, infatti, è Mythologies di Roland Barthes che spazia tra mondo classico e universo contemporaneo, tra epica e cinema, tra poesia e televisione”.

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(SB): “La tua è un’analisi equilibrata. Cerchi di comprendere il fenomeno-Ferragni, non di farne l’elogio né di lanciare un anatema. Mi sembra che ti riesca bene. Tuttavia, se smetti per un attimo i panni della studiosa neutrale, ma fai entrare nel campo della riflessione le tue scelte di vita, gli autori che tu apprezzi e così via, non trovi che una società influenzata, anzi guidata, da figure come quella della Ferragni sia una società dal pensiero impoverito, e pertanto per te indesiderabile? Non mi riferisco al fatto che sia una figura di consumo e che esorta al consumo, attenzione. Anche l’edonismo può avere, e anzi ha, una sua giustificazione e genealogia filosofica di tutto rispetto. Mi riferisco proprio all’atto del pensare e al tipo di pensiero che Ferragni incoraggia e sfrutta. Dopotutto è un’influenza che si gioca su slogan, quindi pensieri, semplicistici, tautologici, immediati. Si tratta di forme del pensiero stilizzate, atrofizzate, avvizzite”. 

(LE): “È proprio a partire dalle mie scelte di vita e dalle letture che hanno influenzato la mia formazione che non sopporto gli “intellettuali organici” che pretendono di distinguere tra buone e cattive influenze, tra buoni e cattivi maestri. Dai tempi della Repubblica di Platone, i filosofi che pretendono di guidare la società non hanno raggiunto risultati desiderabili. 

Il punto non è rendere la Ferragni una filosofa, prendendo il suo linguaggio come riferimento per il pensiero contemporaneo. Ma analizzare il linguaggio degli influencer e le loro strategie comunicative per comprendere alcune trasformazioni in atto che coinvolgono le nostre ‘identità digitali’. 

L’indignazione e il tono scandalizzato spesso servono solo per farci sentire in pace con la nostra coscienza e per avere l’approvazione della nostra ‘bolla’, altrettanto indignata e scandalizzata. Prima di puntare il dito contro gli altri, meglio guardare la trave nel nostro occhio: il nostro dibattito culturale è peggiorato, incagliato in ricette semplicistiche, ovvietà, retorica, pensieri stilizzati. Sicuramente non per colpa di Chiara Ferragni. 

Per onestà intellettuale, credo che invece vada sottolineata l’evoluzione delle posizioni di un’influencer come Chiara Ferragni che usa più responsabilmente il suo ruolo. Gli influencer non sono solo fenomeni di marketing, non hanno solo il potere di orientare i consumi, ma anche il potere di modificare i comportamenti e le opinioni dei loro follower. Più degli intellettuali, più dei politici. Gli influencer, volenti o nolenti, sono degli opinion leader e sono un tassello importante per plasmare il nostro immaginario.