Crollano le certezze. Filosofia della catastrofe da Lisbona alle Marche

Editoriale uscito sulla prima pagina de l’Unità di martedì 1 novembre 2016

“Dapprima s’udì provenire dalle viscere della terra un rombo come di tuono, subito dopo una violenta scossa abbatté gran parte della città”. Queste parole potrebbero riferirsi al devastante terremoto che ha colpito il centro Italia la mattina del 30 ottobre. In realtà si riferiscono a uno degli eventi più tragici e traumatici di tutta la storia europea: il terremoto di Lisbona avvenuto il primo novembre del 1755.

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Il devastante terremoto di Lisbona nel 1755

Durante la festa di Ognissanti di più di 260 anni fa una scossa di quasi sei minuti causa la morte di decine di migliaia di persone e la distruzione di gran parte della città. I sobbalzi della terra provocano anche un violento maremoto: un’onda di 15 metri si abbatte sulla città, sommerge le macerie e si porta via molti dei superstiti.

Una tragedia che scuote l’avamposto della civiltà europea, fa tremare le coscienze di un’intera generazione e fa discutere per decenni giornalisti, tecnici, filosofi, politici, predicatori, liberali e moralisti.

“Mai il demone del terrore aveva avvolto tanto velocemente la terra nel suo brivido” scrive Goethe ricordando la notizia. “Contro gli abusi che si sono potuti fare dell’antico assioma tutto è bene” scrive Voltaire nel Poema sul disastro di Lisbona per demolire l’ingenua fede nell’ottimismo. Niente più del terremoto, infatti, mette in crisi la nostra credenza in un provvidenziale ordine buono che governa l’andamento degli eventi.

“I savi del luogo – aggiunge Voltaire nel suo Candide – non avevano trovato di meglio, per scongiurare una totale rovina, che offrire al popolo un bell’autodafé”. Lo spettacolo delle persone bruciate sembra l’unico modo per impedire alla terra di tremare. “Se questo è il migliore dei mondi possibili, che saranno dunque gli altri?” si chiede Candido con il suo consueto humour nero. Voltaire, insomma, non incrina soltanto l’ottimismo del lieto fine, ma anche la superstizione che cerca innocenti capri espiatori. L’Illuminismo legge il terremoto con la ragione e la scienza, senza gli alibi della provvidenza e del castigo.

Ma anche Jean-Jacques Rousseau interviene nel dibattito. E come un odierno indignato, addita i colpevoli della catastrofe. Le vittime del terremoto non sono imputabili alla natura innocente, ma agli stessi uomini che hanno costruito edifici con materiali scadenti o in luoghi inadatti. “Se gli abitanti fossero stati distribuiti più equamente e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto”. Anzi, le città avide di ricchezza, scrive Rousseau come un odierno ambientalista integralista, offendono la semplicità autentica della natura e della vita rurale. La natura non è matrigna, ma reagisce soltanto alle cattiverie umane.

“La paura della morte, la disperazione per la perdita completa di tutti i beni e infine la vista di altri infelici abbattono anche gli animi più coraggiosi” aggiunge Immanuel Kant. Ma lo spirito illuminista del filosofo tedesco reagisce cercando di razionalizzare l’evento: alla spiegazione superstiziosa contrappone quella spiegazione scientifica che inaugura l’odierna sismologia.

Insomma, le riflessioni sul terremoto di Lisbona non sembrano diverse da quelle che potremmo fare sul terrae motus che ha colpito l’omphalos Italiae in questi giorni. Mentre si contano i danni e si allestiscono i soccorsi, si fanno i conti con le ferite simboliche causate dal sisma.

Le scosse scardinano le fondamenta delle nostre certezze. E il tentativo di placare l’angoscia con temporanei palliativi e illusorie giustificazioni non è scomparso dopo secoli di preziose conquiste scientifiche e culturali.

Cerchiamo un inconfutabile e rassicurante rapporto di causa-effetto che identifichi il peccato o il dolo. Per placare l’ira degli Dei (o della Natura) è fondamentale individuare e punire i responsabili della corruzione della Morale e della Legge. Dalla punizione divina per empietà di un tempo alle contemporanee indagini delle procure, dall’autodafé alla piazza mediatica: si elabora la catastrofe additando un colpevole. Si grida al complotto tra gradi truccati, amministratori corrotti e governo ladro: va in scena il processo continuo degli indignati tra Facebook e talk show contro i presunti colpevoli del disastro.

Il gioco delle colpe, insomma, è una sempiterna strategia per evitare di guardare in faccia una Gorgone che potrebbe pietrificarci. In realtà, così come è stato per il terremoto di Lisbona, anche il sisma che sta sconvolgendo il nostro territorio ci impone riflessioni che tentiamo di rimuovere.

Desideriamo che il mondo sia totalmente conoscibile e controllabile. Ma il giorno, il luogo, la forza di un terremoto rimangono imprevedibili: siamo passivi e impotenti spettatori.

Il terremoto fa vacillare il dominio della realtà e con esso quello della vita, ci consegna alla nostra costitutiva impotenza e limitatezza, ci espone alla fragilità della nostra stessa esistenza. Dopo ogni scossa, si apre uno squarcio su una voragine che, durante il tempo “normale”, cerchiamo di non vedere: secondo la teoria della deriva dei continenti ciò che prima era sommerso ora è emerso, tutto quello che oggi è emerso potrà tornare sommerso. Il terremoto ci connette fatalmente a un destino comune – terribile e inaccettabile – in una spirale ciclica di creazione e distruzione, di vita e di morte.

I calcinacci che cadono dalle nostre case, quindi, sono anche i pezzi del nostro universo di certezze in frantumi. Una perdita materiale e simbolica: rimaniamo senza la protezione rassicurante della storia spirituale del nostro passato. Le scosse che si susseguono producono un disorientamento che si prolunga nel tempo, scardinando la nostra realtà quotidiana fatta di abitudini, di ritmi, di cose, di paesaggi e di incontri.

L’unico antidoto al dolore e all’impotenza, insomma, non sono le pretestuose e forcaiole polemiche che cercano i colpevoli della sventura. Ma la forza della comunità umana che si stringe in un rito collettivo per ricostruire i tasselli della normalità compromessa: alla forza incontrollata della natura si contrappone la forza misurata della cultura.

È la solidarietà collettiva che ci unisce nella consapevolezza di una precarietà empaticamente condivisa; è l’unico collante che tiene insieme ciò che le macerie hanno separato. Resistiamo insieme anche se l’uomo, come ha scritto Kant, “non è stato generato per erigere dimore eterne su questo palcoscenico di vanità”.

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