l’Unità 12/02/2017 – “Se alla fine della nostra vita ci fosse consentito di dire qualcosa, canteremmo una canzonetta, come riassunto di tutta un’esistenza”. Per pochi secondi, durante l’imitazione di Sandra Milo di Virginia Raffaele, sono echeggiate sul palco dell’Ariston queste parole pronunciate da Federico Fellini in una delle sue ultime interviste. E non esiste sintesi più efficace per spiegare il successo sempiterno del festival di Sanremo che si è appena chiuso.
Quando si affievoliscono le luci della ribalta e cessa il tempo dei nostri commenti al vetriolo, rimane soltanto una cosa: il linguaggio della canzone. Indipendentemente dai vincitori, indipendentemente dall’eliminazione dei big e dall’ascesa dei talent, alcuni di questi brani diventeranno i nostri personali “tormentoni”. Come dei “grandi tormenti”, abiteranno il nostro mondo interiore, entreranno in sintonia con il ritmo della nostra esistenza, trasformeranno emozioni collettive in ricordi personali. Si uniranno alla schiera delle canzoni capaci di parlare un linguaggio universale e singolare allo stesso tempo: una narrazione di archetipi che diventa maieutica delle nostre emozioni più intime.
Alcuni ricorderanno la classica romanza di Albano o la giovane nostalgia di Chiara, l’intenso inno della Mannoia o la dedica sentimentale di Gigi D’Alessio, la forza narrativa di Ermal Meta o l’ironica leggerezza di Gabbani, il fascino graffiante di Paola Turci o la dolcezza acerba di Michele Bravi. Le canzoni di Sanremo cantano un’epoca, ma anche ciascuna biografia.
Perfino Pierpaolo Pasolini scriveva: “le intermittenze del cuore più violente sono quelle che si provano ascoltando una canzonetta”. Per questo, ascoltando alcune canzoni italiane ci capita, senza volerlo, di perdere la nostra corazza di sprezzante cinismo: è la casa della nostra intermittenza amorosa, il luogo amato verso cui desideriamo tornare, il lessico familiare da cui non possiamo separarci. Ci duole ammetterlo, ma non ci saremmo mai innamorati con la stessa intensità, se non avessimo mai sentito cantare dell’amore nella nostra lingua materna.
Insomma, al di là del gusto della critica, non possiamo fare a meno di Sanremo. Non solo perché, come ha scritto Andy Warhol, “di chi potremmo spettegolare domani?”. Ma anche perché, come ha chiosato Marcel Proust, la musica popolare “si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini, il suo posto è immenso nella storia sentimentale della società”.