L’articolo è apparso su l’Unità dell’1 marzo 2016.
Hollywood premia finalmente Leonardo Di Caprio. E lo premia con un film – The Revenant – che rappresenta una precisa idea di cinema: una potente fabbrica di miti antichi con tecnologie contemporanee, di domande archetipiche con linguaggi di avanguardia. The Revenant, infatti, è la perfetta incarnazione di un “mythos” contemporaneo.
La vicenda – che si svolge nel 1823 lungo le anse del fiume Missouri – racconta la storia di un cacciatore di pelli, Hugh Glass/Leonardo Di Caprio, che viene lasciato dai suoi compagni moribondo tra le montagne del Nord Dakota e riesce a sopravvivere.
Di Caprio è “redivivo”. In termine deriva dal latino “reduo”, mi rivesto, mi avvolgo di un vestito nuovo: il redivivo è un uomo che era morto ed è ritornato in vita. Il redivivo ha sfidato la morte, è risorto. Iñárritu, quindi, utilizza Di Caprio per raccontare un mito contemporaneo di resurrezione. Il film inizia con un’epica ripresa dei cacciatori di pelli che – persi “in una selva oscura” e acquitrinosa – intravedono tra le nebbie la preda: è il cervo edipico del San Giuliano Ospitaliere di Flaubert. Sparano e danno inizio alla grande profezia.
La spedizione di caccia viene attaccata dagli indiani AriKara. Con di Caprio, si salvano dall’imboscata solo una dozzina di uomini, tra cui il figlio adolescente Hawk, avuto da una bella e sfortunata moglie indiana. Qui incomincia l’anabasi, letteralmente un “andare in salita” dalla costa verso l’interno del territorio. E – come i mercenari dell’armata di Senofonte, penetrati in territorio nemico, rimasti senza capi e senza ingaggio – i sopravvissuti di Iñárritu tornano verso casa, con un viaggio interminabile pieno di trappole mortali.
Ma durante il viaggio di ritorno Hugh Glass/Leonardo Di Caprio, come Enea e Odisseo prima di lui, scende agli Inferi. Il Cerbero che lo traghetta nel mondo dei morti è un’impetuosa orsa che lo sbrana in difesa dei suoi cuccioli. Per lui non c’è scampo, le ferite sono troppo profonde: deve arrendersi alla morte per salvare gli altri. E la scena del consenso a lasciarsi morire con un semplice battito di palpebre rimarrà negli annali del grande cinema: un simbolico trapasso dalla vita al sonno eterno in una foresta di simboli.
Ma la morte inevitabile si interrompe, si arresta davanti al brutale assassino del figlio che si consuma sotto i suoi occhi inermi. Scende tramortito nella tomba, viene sepolto, ma il pensiero del figlio brutalmente assassinato lo costringe a “re-venire”, a ritornare. Una reazione tale e quale a quella dell’orso. Anche lui reagisce quando è intaccata la sopravvivenza della prole, quando viene messa in discussione la continuità della specie dopo la propria morte. L’adrenalina della vendetta lo trascina a carponi verso la resurrezione: è un “revenant” che ritorna tra i vivi pur essendo già morto.
Hugh Glass/Leonardo Di Caprio non può godere del riposo eterno prima di compiere l’ultimo nostos, l’ultimo viaggio di ritorno spinto da una passione vendicatrice che non può tacitare. Si alternano soste, bivacchi, mostruosità, aggressioni, morte. La seconda anabasi è un viaggio solitario che nasconde pericoli mortali, insidie che celano i divieti degli Dei da non infrangere. Ma protagoniste dell’ultimo ritorno non sono le vicende umane, ma le condizioni estreme dell’ambiente: il freddo. La neve e il ghiaccio sostituiscono le fiamme dell’inferno. Iñárritu costruisce un universo telesiano dove il freddo paralizza la vita, come lo sguardo della Gorgone. Un freddo materiale e metafisico che arriva in sala, con lo spettatore ormai al fianco del piccolo animale uomo che, tra le cime innevate e le gelide acque, deve ambientare la sua risalita. Nell’ascesi fisica e morale di Di Caprio, l’etica è quella del brutale stato di natura: il bene è tutto ciò che favorisce la propria conservazione e il male è tutto quello che la ostacola.
Non è un caso che il freddo che ci portiamo dentro, come ricordo di una originaria grande glaciazione, torni insistentemente nella attualissima narrazione pop, da Fargo a Fortitude, da Frozen a The Hateful Eight. Un freddo metaforico come perfetta quinta scenica della condizione umana contemporanea, in un’interminabile recessione economica e culturale. E le stupefacenti panoramiche di ghiacciai eterni e di alberi mossi dal vento gelido invocano forze inaggirabili che ci costringono a prove terminali.
Al manto nevoso della natura, corrisponde il sangue elargito copiosamente in ogni scena del film. È in questo liquido caldo che si cela l’istinto di sopravvivenza, lo vita torbida che lotta contro la prigione di ghiaccio della natura. Il freddo pungente e il caldo fumante delle ferite si inseguono in una lotta fratricida sotto gli occhi sprezzanti e ostili del destino. Anche noi torneremo a mangiare fegato crudo come nei migliori riti iniziatici di caccia? Anche noi, per sopravvivere al gelo della lunga notte della recessione, sbudelleremo un cavallo morto e utilizzeremo la sua carcassa calda come accogliente ventre materno?
Una battaglia dalla quale il protagonista (e con lui lo spettatore) esce vincitore. Ma il revenant non è più lo stesso uomo. Il suo spirito sopravvive mentre “il suo corpo sta morendo”. La sete ancestrale di vendetta tiene in vita il redivivo Odisseo: “Non ho paura di morire. Sono già morto”. Il viaggio nell’aldilà, però, lo ha reso irriconoscibile come Cristo dopo la resurrezione per i discepoli in cammino verso Emmaus. Alla natura andrà l’ultima parola. Le fredde acque del Missouri e la sacrale giustizia indiana decideranno della vendetta, poiché questa “è solo nelle mani di Dio”.
Quando lo schermo si oscura, poco prima dei titoli di coda, torna all’orecchio il respiro affannoso del cacciatore che avevamo sentito davanti alla preda iniziale. Non siamo ancora al sicuro. Infine si accendono le luci e rimaniamo frastornati. A questo punto The Revenant raggiunge il suo effetto catartico: siamo non-morti, non apparteniamo più al regno degli inferi, ma facciamo fatica a tornare al mondo dei vivi. Come per il protagonista, le ferite sono destinate a sanguinare, perché anche noi abbiamo condiviso l’esperienza della morte, e siamo consapevoli che il ritorno alla cara luce industriale sarà momentaneo e un giorno l’esperienza terribile della sepoltura si riproporrà implacabile.
Il mythos del redivivo ci ha fecondato e l’ecografia dell’Oscar ci conferma come la vita si nutra di narrazione.