L’Unità 6/05/2017 – In una famosa trasmissione televisiva un filosofo di grido, preso dalla smania dei tempi, si è lanciato in una personalissima interpretazione della parola vergogna. Il grido di guerra di tutti gli indignati sarebbe giustificato proprio dal suo etimo: ‘vereor gognam’, ‘temo la gogna’. Naturalmente l’etimologia corretta di vergogna è la ‘verecundia’ latina. Ma la trasformazione di quel nobile sentimento di pudore che ci fa arrossire in una invettiva ha tanto preso la mano del filosofo da evocare infine il vero convitato di pietra di ogni dibattito televisivo: la gogna.
Cosa ha reso questo ‘goggylos’ in ferro al collo del malfattore, incatenato ad una colonna o a un muro, la croce e la delizia di ogni pubblica discussione? Perché sopravvive nel nostro linguaggio quotidiano questo antico castigo, che esponeva lo sventurato agli insulti della gentaglia in un luogo pubblico con le mani legate e un cartello di accuse appeso al collo?
Innanzitutto bisogna ricordare che la gogna non è mai stata una punizione estrema, ma una sanzione alternativa o complementare al carcere. Nasce come esecrazione non di un crimine, ma di una condotta. Veniva allestita per gli imbroglioni, i mezzani e i falliti. La condanna otteneva lo scopo di rendere ripugnanti al pubblico le persone giudicate sconsigliabili. Una reprimenda pubblica contro la pericolosità sociale e morale del comportamento.
La gogna nei fatti è stata cancellata dalla Rivoluzione Francese come lesiva dei diritti della persona, dopo le accorate parole di condanna dell’immancabile Cesare Beccaria. Sembra, però, che questo tipo di pena ancora oggi sopravviva per reati morali nelle società chiuse dei Mormoni e degli Amish. Una persistenza, dunque, di chi rifiuta le comodità (e le conquiste) del progresso.
Questo può aiutare, ma non spiegare il successo del termine come metafora del presente.
Per capirci qualcosa di più dobbiamo scomodare una storia importante. Una delle grandi storie su cui si fonda la cultura occidentale. La condanna in un tribunale imperiale di Gesù di Nazareth a Gerusalemme. Il processo più conosciuto, insieme a quello di Socrate, dell’antichità. Anche questo, come quello di Socrate, imbastito su un reato di opinione. Con il dibattimento, il verdetto e l’esecuzione di duemila anni fa riaffiorano tutti gli stilemi dell’armamentario mediatico odierno: il delatore infido, l’accusa ‘ideologica’ infamante, la folla indignata del “Cristo o Barabba”, la gogna della fustigazione alla colonna, l’esibizione in piazza del condannato, l’esecuzione pubblica impietosa e il pentimento sempre postumo dei “nous sommes tous des assassins”.
In quel caso, ma non per Socrate, l’errore giudiziario fu risarcito con la resurrezione, ma l’impatto di quella clamorosa ingiustizia ebbe un’eco intramontabile. A distanza di secoli quel ricordo viene riesumato e riproposto alle genti. Recitato e drammatizzato. Per l’intero medioevo il processo divenne ‘sacra rappresentazione’. Per infinite generazioni l’Occidente si è appoggiato su un cardine mentale: i comportamenti possono, anzi, vanno processati. Di quella storia tragica alle masse non rimane l’esito illiberale di un processo alle idee, quanto il fascino oscuro ed enigmatico della punizione.
La sacra rappresentazione, con il suo immutato pathos ancestrale, non finisce mai; viene riproposta ogni anno nelle processioni del venerdì santo. Processioni teatrali, con tanto di musica, di figuranti e di strumenti di tortura. Veri trionfi dell’effimero, di una società che teatralizza e spettacolarizza tutto, anche l’epilogo più tragico della vicenda umana. Indimenticabile, nel dopoguerra, la bellezza fuggitiva delle processioni bolognesi del Cardinal Lercaro. Tutti siamo cresciuti oscillando tra flagellazione e redenzione. Il modello culturale della gogna dunque ce lo portiamo dentro; lo abbiamo nel DNA mentale. E nei momenti di crisi, di disperazione, di insoddisfazione riaffiora potente e prepotente.
“Signore dacci la nostra gogna quotidiana”. E puntuale ogni mattina sui giornali e sulle televisioni arriva la flagellazione di turno. Addirittura una rete ha un palinsesto dedicato solo alla gogna. Non un crimine, ma un’ipotesi; non un reato, ma un comportamento. E giù frustate! Con la folla del Colosseo mediatico che grida ai poveri gladiatori della politica: “Onestà! Onestà!”.
L’Italia dei flagellanti è all’avanguardia nel mondo. È il paese che dedica più ore ai cosiddetti talk show; che ha trasformato i dibattiti televisivi in un genere specifico di spettacolo, o di avanspettacolo.
Il sempiterno ritorno della gogna si è innestato su un paese di teatranti e con la sua ricomparsa sono nate delle vere compagnie di giro. I Pilati e i Giuda del nostro Truman Show italico. Ogni attore interpreta magistralmente il suo personaggio: il giornalista indignato, l’economista indignato, lo psicologo indignato, il filosofo indignato e l’immancabile critico d’arte indignato. Tutti, con la loro maschera quotidiana, recitano a soggetto. Senza pietà! D’altronde, “l’innocente è sempre colpevole di avere, con il suo maldestro comportamento, indotto la Giustizia in errore”, come direbbe Marcello Marchesi.
Interventi liberi, ma sceneggiatura rigida. Come nella Commedia dell’Arte la rappresentazione deve avere il suo svolgimento e il suo epilogo assicurati. Una buona dose di indignazione accompagnata dall’immancabile frustrazione e lo spettacolo è assicurato. Tutto per arrivare a fine trasmissione con il solito e rassicurante lieto fine: la gogna per il cireneo di turno.
Naturalmente lo spettacolo per funzionare deve pagare pegno alla retorica ‘liberal’ con le premesse di rito: “nessuno è colpevole fino a sentenza”; “abbiamo grande fiducia nella magistratura”…
Senza, però, mai discostarsi dal menabò più o meno forcaiolo della trasmissione: senza gogna non c’è “mordente” e lo spettatore, deluso, cambia canale. La domanda determina l’offerta e l’audience indica il tasso di odio sociale. Come ha scritto il sociologo Erich Fromm, “non c’è fenomeno che contenga così tanto sentimento distruttivo quanto l’indignazione morale, che permette all’invidia o all’odio di manifestarsi sotto le spoglie della virtù”.
Per non incappare in malintesi buonisti, un talk show è arrivato a chiamarsi ‘la Gabbia’, mutuando il titolo da una variante della punizione medievale, quando i condannati venivano messi alla gogna chiusi in una gabbia appesa in ‘piazza’ (altro titolo di trasmissione) ed esposti per giorni al pubblico ludibrio. Naturalmente “siamo tutti garantisti, ma…”