Intervista apparsa su Diogene Magazine il 24 giugno 2015
Si può fare filosofia utilizzando qualsiasi linguaggio? C’è chi pensa che il filosofo oggi non sia l’autore di saggi o il professore di filosofia, ma il romanziere, il cantante, il creatore di serie televisive. La cosa più interessante è l’interazione fra questi modi antitetici e contrastanti di intendere la filosofia.
Siamo a Pesaro, in una fredda giornata di febbraio. Ci incontriamo in una confortevole saletta del Nero Caffè, in piazza, con la dott.ssa Lucrezia Ercoli, direttrice artistica di Popsophia, e con la dott.ssa Federica Nardi, responsabile dell’ufficio stampa.
Dott.ssa Ercoli, che cos’è la popsophia?
La parola popsophia ha due significati molto netti, molto precisi e molto diversi. Innanzitutto quello più immediato della “filosofia popolare”, della filosofia in piazza, di filosofi che parlano a una vasta platea, che utilizzano un approccio – di necessità – diverso da quello impiegato con il mondo accademico. Questa “filosofia popolare”, per un pubblico di non addetti ai lavori, si trova nel nostro festival come in molti altri festival italiani e stranieri. Naturalmente la filosofia, trasportata in piazza, diventa un’altra filosofia.
Che cosa diventa?
Diventa divulgazione, con tutti i pregi e i difetti di questa parola. Il filosofo deve rendere chiaro il suo discorso prima di tutto a se stesso, poi al suo pubblico. E rendere chiare le domande che si è posto a vantaggio di un pubblico di non addetti ai lavori lo costringe a una torsione creativa. Una filosofia che vuole pensare i problemi del proprio tempo deve tornare in piazza. Ovviamente c’è il rischio, spesso evocato semplicemente per screditare queste manifestazioni, della banalizzazione del discorso filosofico…
La banalizzazione è un rischio che la divulgazione ha sempre corso, ma il bravo divulgatore non banalizza; questo è un problema interno alla divulgazione. Però il tipo di filosofia che viene fatto in pubblico, da quello che abbiamo visto, per adattarsi alle esigenze del grande pubblico, è in realtà già a monte filtrata, selezionata: non si tratta qualsiasi argomento filosofico, ma solo un certo tipo di temi. È così anche per voi?
Credo sia fondamentale che la filosofia ‘in piazza’ esca dalla struttura rigida della “storia della filosofia” che prevede un approccio cronologico e rischia di essere una mera “filastrocca di opinioni” in cui il filosofo successivo supera l’antecedente. I macrotemi della filosofia escono dal dibattito interno e vanno a interagire con le questioni che il pubblico sente come attuali e urgenti.
Non basta! L’approccio del nostro festival è ulteriormente diverso e apre orizzonti che, a livello accademico e scolastico, sono rimossi.
La divulgazione della “filosofia popolare”, infatti, non esaurisce la portata del termine popsophia. Noi affidiamo alla filosofia il compito maieutico di spiegare il prodotto culturale di massa e al prodotto culturale di massa quello di esprimere le recondite domande del presente.
All’interno del nostro progetto convivono entrambe le interpretazioni.
Ci fa degli esempi del vostro Festival riguardo ai temi trattati?
Non ci piace l’idea di una semplice parola chiave casuale, genericista e generalista che diventa un contenitore di tutto e del contrario di tutto.
Come fa Modena?
Sì, in questo ci differenziamo da Modena e da tutti i festival culturali che scelgono una parola chiave generica. Pur riconoscendo a Modena di aver aperto la strada a questo metodo. All’inizio l’idea era interessante, oggi è vecchia e rischia di non produrre novità speculative.
Voi come lavorate?
Da due anni scegliamo un tema che metta in dialogo due concetti opposti: lavoriamo sull’ossimoro, sulla contraddizione.
L’abbiamo fatto nel 2013 con la contrapposizione “eroi/antieroi”. Abbiamo continuato su questa strada nel 2014 con un tema tratto da una poesia di Borges: “Nostalgia del Presente”. Gli ospiti sono stati costretti a proporre un’interpretazione del significato di questa contraddizione. Come si può avere nostalgia di qualcosa che dovremmo avere sottomano? La nostalgia non è sempre rimpianto di qualcosa di passato, di perduto? È emerso un arcipelago di risposte diverse che tentano, spesso senza riuscirvi, di sciogliere la contraddizione.
Per il 2015 ci aspetta un altro paradosso, questa volta di Giuseppe Ungaretti: “allegria di naufragi”. Vedremo!
Ai relatori che cosa chiedete?
Dipende. Posso riassumere le richieste definendo le tre modalità di interazione con gli ospiti che il festival propone. La prima, per la serie “diatribe”, vede coppie di filosofi scontrarsi su interpretazioni diverse del tema. Sono venuti fuori, attraverso il dialogo, punti di contatto e punti di distanza. Non è la classica lectio magistralis, ma un confronto serrato come in un ring filosofico, moderato da un arbitro – ruolo che di solito svolgo personalmente.
Nella seconda modalità, invece, è il relatore che sceglie un “fenomeno pop” che incarna il tema del festival. Le rassegne, in questo caso, sono molto diverse e prendono in esame il cinema, la fiction, la musica e altre opere d’arte contemporanee.
Poi, dulcis in fundo, c’è un terzo approccio: la filosofia-spettacolo.
Pubblicando questa intervista, come dovremo scrivere la dizione “filosofia spettacolo”? Mettiamo un trattino in mezzo? È una sola parola?
Stiamo ridefinendo questo concetto in vista dell’edizione 2015. Abbiamo coniato il termine Philoshow per descrivere un format su cui stiamo lavorando da diverso tempo e che sarà protagonista di tutti i prossimi appuntamenti di Popsophia. Non è una semplice conferenza, ma un pensiero che si fa e si costruisce attraverso lo spettacolo, una filosofia che interagisce con i molteplici linguaggi del contemporaneo. Il relatore viene inserito all’interno di uno show dal vivo pieno di contaminazioni: canzoni dal vivo, montaggi cinematografici, letture di testi pop. Durante il Philoshow il pubblico reagisce in modo empatico – ascolta una canzone o vede immagini che lo emozionano perché richiamano ricordi condivisi – e anche il filosofo risponde empaticamente mescolando il suo pensiero a queste fonti esterne e interne di contaminazione.
Tutto questo è simile all’Aristofane del “Discorso giusto e Discorso ingiusto”?
Sì… ma non proprio. La nostra idea è creare un format nuovo, un modo inedito di far fluire la riflessione filosofica. Non è un semplice “torniamo alle origini della filosofia” che imita il modello di Aristofane, di Socrate, della polis, dell’agorà.
Le formule di Popsophia sono impensabili senza la società di massa in cui viviamo. Oggi siamo in presenza di una mutazione genetica che prevede un confronto con una molteplicità esponenziale di voci e di interpretazioni che, volenti o nolenti, ridefiniscono il nostro modo di concepire l’arte e la filosofia.
Ma Aristofane mette in scena la filosofia da poeta comico, prendendo in giro la filosofia stessa con tantissime persone davanti. E questo vuol indubbiamente dire fare un discorso filosofico. Aveva anche lui migliaia di persone davanti, un teatro greco antico ne contiene molte migliaia. Non è questa una situazione paragonabile alla vostra a Popsophia?
In questo senso sono d’accordo. C’è un capovolgimento ironico dell’impostazione seria che normalmente si associa al filosofare. Le parole del filosofo, in questo contesto, assumono un significato diverso rispetto a ciò che il pubblico vede dopo e prima del suo intervento. Il distacco ieratico che c’è tra conferenziere e pubblico della lectio magistralis è completamente annullato. Il Philoshow è destabilizzante anche per il filosofo che deve cambiare i propri paradigmi di riferimento, non può limitarsi a reiterare una vecchia conferenza o a presentare l’ultimo libro. Come direttrice artistica, chiedo agli ospiti di mettersi in gioco in un’esperienza inedita, pungolandoli in modo provocatorio e paradossale con i prodotti pop che fanno parte della nostra vita quotidiana.
Voi utilizzate molti linguaggi e li legate alla filosofia in maniera oserei dire provocatoria, teatrale. Si tratta di linguaggi della nostra società o della filosofia?
Sono primariamente linguaggi della società che circolano nel nostro spazio pubblico e che non possono essere ignorati. Il problema è: come si pone la filosofia di fronte a questi linguaggi? In questi anni di festival sono apparse diverse forme di interazione che fanno capo a scuole filosofiche diverse. Ho curato, insieme a Federica Nardi, un numero della rivista filosofica Lo sguardo, uscito a gennaio, interpellando più di trenta filosofi italiani e stranieri per far emergere chiaramente queste prospettive eterogenee.
Il pop, infatti, si può usare in modo “asettico”, didattico, come esempio chiarificatore di un concetto complesso. Oppure in modo più estremo, come “virus” dal quale la stessa filosofia non è immune. I linguaggi del pop, in questa prospettiva, non sono linguaggi altri con i quali la filosofia si confronta, ma diventano essi stessi linguaggio filosofico.
Mi scusi, sono solo i linguaggi che si ibridano?
Secondo questa seconda interpretazione, è la filosofia stessa che – per usare un’espressione del filosofo francese Laurent De Sutter – “vampirizza” il pop e ne viene “vampirizzata”. Non c’è più un confine netto a distinguere le diverse discipline.
Lei usa una metafora molto forte, perché quello che viene vampirizzato non è più quello di prima. Quindi mi perdoni la domanda certo forse troppo generica: in questo contesto e con l’ibridazione dei linguaggi, che cos’è la filosofia?
La domanda della domande. Potrei rispondere così: se parliamo della disciplina scolastica o accademica, della filosofia non resta più nulla. Per questo usiamo il neologismo popsophia che, pur facendo ancora riferimento alla filosofia tradizionale, ne determina un oltrepassamento.
Entriamo nel merito. Avete scelto una parola composta che considera la sola sophia, la sapienza che è saggezza, lasciando cadere la philia, l’amicizia.
Più che sull’assenza della “philia”, vorrei concentrarmi sulla presenza del “pop”. Vorrei tornare al secondo significato di ‘popsophia’ che all’inizio della nostra conversazione ho solo accennato. Della popsophia, dicevo, si possono dare due definizioni, e finora ci siamo soffermati parecchio sulla prima, in cui “pop” vuol dire semplicemente “popolare”.
Ma c’è quel secondo significato di “pop” che implica un atteggiamento provocatorio ed estremo che fa emergere la sophia, la saggezza, del mondo apparentemente effimero e superficiale della popular culture. Il filosofo è contemporaneamente interprete e spettatore; tenta, a tastoni, di conoscere meglio la società di massa che già da sempre lo definisce.
Quello che troviamo alla fine del processo e che lei chiama popsophia è quindi qualcosa di nuovo rispetto al semplice fenomeno pop. Può definirci con chiarezza il punto di partenza e il punto di arrivo?
Mi fa una domanda a cui non so rispondere. Il punto di partenza e il punto di arrivo sono, per così dire, “oggetti fantasmatici”. Il percorso di popsophia è un viaggio alla deriva come quello del viandante che abbiamo scelto come simbolo: non sappiamo dove vogliamo arrivare e non vogliamo neppure saperlo.
La sfida culturale di Popsophia è contenere le contraddizioni, le molte voci del mondo filosofico contemporaneo che spesso non trovano espressione nelle università e che traghettano cosmogonie diverse.
C’è chi pensa che il filosofo oggi non sia più l’autore di saggi o il professore di filosofia, ma il romanziere, il cantante, il costruttore di serie televisive. La cosa più interessante è l’interazione fra questi modi antitetici e contrastanti di porci domande sulla realtà contemporanea.
Se Cartesio fosse tra voi, apprezzerebbe? E Marx?
Anche in questo caso non so rispondere. Il comportamento dei filosofi è definito dal tempo in cui vivono, dal contesto storico e sociale in cui sono vissuti.
Forse ci avrebbero criticato. Noi, mescolando la storia della filosofia al pop, ci esponiamo consapevolmente alle critiche più efferate. All’inizio abbiamo combattuto con i pregiudizi del mondo accademico, del giornalismo culturale, delle amministrazioni locali.
Il leit motiv? “Questa non è filosofia! È mercificazione del pensiero che si sporca con le cose peggiori della società – cioè la televisione, il trash, le paillettes di Platinette”.
Voi come avete risposto?
Abbiamo risposto invitando una famosa pornostar a discutere di porno-sophia. C’è un’intenzione provocatoria e dissacrante che vuole scardinare il politicamente corretto. Se non vogliamo limitarci a trasferire la lezione universitaria in piazza, dobbiamo fare un passo ulteriore…
Il fatto che lei abbia 26 anni e che le avanguardie del primo Novecento fossero composte da persone della sua età ha un rilievo? È un fatto generazionale?
Grazie per il paragone iperbolico. Scherzi a parte, c’è sicuramente un aspetto generazionale in questa impostazione. Il nostro desiderio è far emergere una nuova generazione di pensatori che non ha accesso (e forse non lo avrà mai) al mondo accademico, non solo in Italia ma anche all’estero. Una generazione che va dai 25 ai 45 anni che è cresciuta con il pop e che utilizza metodi e approcci sconosciuti ai padri “venerandi e terribili”.
Il movimento delle mani come facciamo a descriverlo? Mentre parla, Lucrezia gesticola tutto il tempo. Le mani descrivono cerchi, aprono orizzonti. Le sue parole sono accompagnate costantemente da questi movimenti che sembrano diventare, essi stessi, parole e cose concrete.
I filosofi da invitare bisogna sceglierli bene, immagino.
Certo, il festival ha delle esigenze di spettacolo imprescindibili…
Anche Aristofane, anche Eschilo avevano esigenze di spettacolo. Non è una cosa nuova.
La novità è l’ibridazione con tutte le forme visive e sonore del contemporaneo. La forma non è un secondaria rispetto al contenuto…
Lei cura molto l’aspetto visivo. A partire dal look, dal papillon. È una scelta? È legata all’esigenza di trovare un’identità visiva? [Lucrezia indossa una camicia bianca, un gilet di lana, jeans. Il colletto della camicia è tenuto fermo da un papillon rosso]
In questo vezzo, che in realtà fa parte anche nella mia vita privata [indica il papillon], c’è anche una forma di ritualità. Il festival – dal logo alla sigla, dalla grafica alla presentazione – è una celebrazione quasi religiosa piena di simboli e riti.
Però qui stiamo parlando di un legame con una persona.
Questo è molto relativo. Io mi occupo della direzione artistica, ma il festival sarebbe impensabile senza il resto dei collaboratori, molti dei quali volontari.
Marx, 1848. Lo inviterebbe?
Ovviamente. Accetterebbe sicuramente e si farebbe accompagnare da Enghels.
Era un signor nessuno.
Abbiamo invitato molte persone sconosciute al grande pubblico. Accanto agli ospiti noti, è entrata nel programma una generazione di “signor nessuno”: giovani e preparati filosofi che hanno voglia di sperimentarsi con i temi della popsophia. E più è noto il festival, più riusciamo a intercettare nuove personalità finora rimaste nell’ombra.
Il “noi” a chi fa riferimento?
Ai membri di un’associazione culturale no profit quale è Popsophia. Attualmente la nostra non è una professione con cui paghiamo l’affitto a fine mese. Si tratta piuttosto, in questi tempi di crisi, di un investimento esistenziale, intellettuale ed economico, necessario far partire un progetto in cui crediamo…
Quanti siete?
Lo staff stabile durante l’anno è composto da una decina di persone, ognuna delle quali si occupa di un settore diverso: stampa, segreteria, grafica, video, regia, fotografia, musica… Quando c’è il Festival, ovviamente, la squadra si allarga e accoglie le professionalità e i volontari del luogo che ospita il festival.
Quanto serve per fare questo lavoro?
Non abbiamo risorse economiche per comprare le pubblicità a pagamento sui giornali nazionali o per invitare pop star con cachet esorbitanti.
Abbiamo, però, l’energia creativa di tutti i collaboratori che non è quantificabile economicamente… La crescita del brand di popsophia passa principalmente per il mondo del web e dei social network. I video del festival – interviste, spettacoli, conferenze, documentari registrati e montati da noi – è il nostro principale patrimonio. Su Youtube passano dalle 300 e le 300.000 visualizzazioni.
Avete capito il perché di queste oscillazioni?
Spesso dipende dal protagonista (i nomi noti generano molte visualizzazioni). Ultimamente stanno emergendo anche i temi. Ad esempio, i video della philofiction, la rassegna sulla filosofia delle serie tv, stanno riscuotendo molto successo.
Avete mai trattato temi a forte impatto teoretico?
Li abbiamo trattati. L’ultimo esempio in ordine di tempo è stato il philoshow che abbiamo prodotto per la Giornata della Memoria del 27 gennaio sulla “Banalità del male”.
Chi vi finanzia?
Dipende dall’evento. Ci sostengono le amministrazioni pubbliche – Regione, Provincia, Comune – e gli sponsor privati. È difficile rimanere in piedi in un momento in cui molte realtà sono costrette alla chiusura….
Perché vi sostengono?
Credono nella potenzialità economica di un evento culturale con una simile affluenza di pubblico e visibilità mediatica. Ogni anno facciamo rilevazioni, sondaggi e interviste per capire chi sono e da dove vengono gli spettatori del Festival. Questo ci consente di quantificare l’indotto turistico generato dall’evento.
Come scegliete le persone a cui date visibilità?
C’è un criterio legato alla notorietà del personaggio e un criterio legato allo spessore culturale. Spesso, non sempre, le due cose vanno di pari passo. Ma, ogni anno, cerchiamo di aprire una ricerca artistica sulle competenze legate all’argomento specifico che vogliamo trattare. Mi è capitato di scoprire relatori perfetti in maniera del tutto casuale, anche in contesti extra-accademici…
Pagate i vostri relatori?
Garantiamo un gettone di presenza minimo a tutti gli ospiti. Il lavoro intellettuale deve essere pagato. Ma non possiamo – e non vogliamo – pagare il prezzario degli spettacoli già preconfezionati delle agenzie. Una volta stabilizzato il brand del festival, gli ospiti (anche quelli che di solito pretendono un cachet considerevole) si sono affezionati al progetto. Durante il festival si crea una comunità di amici, un clima particolare che coinvolge pubblico e relatori dal pomeriggio a notte inoltrata. Anche le location, Rocca Costanza a Pesaro e il Castello della Rancia a Tolentino, favoriscono questa dimensione.
Dormite in quei cinque giorni?
Poco, per usare un eufemismo. Sono giorni in cui si concentrano esperienze di ogni tipo senza pausa…
Per questo siete così giovani… [ridono]. Com’è nata questa idea di Popsophia?
Nel 2009, da una rassegna di filosofia dal titolo “Pensiero in gioco” a Civitanova Marche. Lì, per la prima volta, ho testato la capacità della filosofia di aggregare tanta gente e di aprirsi alle domande contemporanee. Così è nata l’idea del neologismo “Popsophia”.
Il neologismo Popsophia infatti è molto potente.
Il neologismo è stata una calamita. Tutti si sono chiesti: che cosa significa quest’accozzaglia di termini? L’idea di dare a un Festival un nome che incarna anche un genere filosofico specifico ha creato da subito dibattito.
Ma non è semplice comunicare quello che facciamo al di là del carattere effimero dell’evento. Vogliamo aprire una rivista annuale in cui raccogliere i contributi inediti dei relatori. Inoltre lavoriamo nel settore della formazione con le istituzioni scolastiche, le accademie di Belle Arti, le Università. Stiamo progettando un master e una summer school di pop filosofia per il prossimo anno.
Insomma, il bello deve ancora venire.