“Caro Leonard, guardare la vita in faccia, sempre; guardare la vita in faccia e conoscerla per quello che è; al fine conoscerla, amarla per quello che è, e poi metterla da parte. Leonard, per sempre gli anni che abbiamo trascorso, per sempre gli anni, per sempre l’amore; per sempre, le ore”. Con queste parole si chiude la vita di Virginia Woolf raccontata nel meraviglioso romanzo di Michael Cunningham, trasposto nel film di Stephen Daldry, The Hours.
“Le ore”, infatti, era il titolo provvisorio che la stessa Virginia aveva pensato per il suo capolavoro: La signora Dalloway. Un romanzo geniale, imperniato sul rapporto con il tempo, che si svolge nell’arco di una sola giornata, dalle 10 del mattino di un mercoledì di giugno del 1923 fino alla festa serale organizzata da Clarissa.
“Per sempre, le ore” è il suggello che lega le pagine del libro “Efemeridi. Storie, amori e ossessioni di 27 grandi scrittori“. Un viaggio compiuto dalla penna leggera e ispirata di Cesare Catà alla ricerca delle giornate che cambiarono per sempre la vita e l’arte di ventisette indimenticati scrittori e poeti. Incontri, scoperte, casualità, scelte che durano lo spazio di un giorno. Attimi eterni che contengono il gorgo insondabile di sofferenza e passione che riassume un’intera vita. Le ore irreversibili di una sola giornata che nascondono l’irrevocabile: il sovvertimento del senso ordinario dell’esistenza, il baluginio divino di un’anima dotata di genio.
I ventisette episodi che compongono questa raccolta, infatti, intessono una meravigliosa trama tra vita e letteratura, realtà e fantasia, esperienza e poesia. Ma non si tratta di aneddoti che solleticano la curiosità degli stalker letterari, né di mero gossip sulla vita intima degli autori più amati, né di neutra critica letteraria.
Cesare Catà compie una riscrittura, personale e inedita, degli attimi vertiginosi in cui scrittori e scrittrici si sono spinti ai limiti dell’abisso per imparare a conoscere quel mondo che hanno sognato e raccontato nelle pagine delle loro opere.
Per sempre, le ore: giornate in cui scrivere vuol dire esporsi alla violenza del mondo per poter parlare del proprio martirio. Per sempre, le ore: giornate in cui si è detto a se stessi “diventa quello che sei”, ben sapendo che non sarebbe bastato l’inchiostro per raccontare quanto tremendo sia diventare se stessi. Pagine che ci ricordano che non esiste arte senza vita, così come non esiste verità senza errore e sogno senza risveglio.
Ma è dall’estremo pericolo che nasce ciò che salva. La narrazione è il miele sulla tazza, l’unguento fatato che riconcilia il sapere e la vita. La scrittura, per le donne e per gli uomini che compaiono nelle pagine che seguono, non è una mera scelta professionale. Piuttosto un destino ineluttabile che abbraccia autore e lettore: raccontare e leggere le storie di altri per svelare e superare la propria. La scrittura, ci ricorda Catà, è l’unica arte capace di “scavare l’anima con il martello pneumatico” e, al contempo, di “sognare la vita trasformandola in poesia”. D’altronde gli uomini, ha scritto Giambattista Vico, si allontano dalle bestie raccontando sempre di nuovo la loro vita. Nel disincanto del mondo, l’incanto dell’umano.
Raccontare una storia, quindi, non è solo un mestiere, così come ascoltare una storia non è solo un orpello al tran tran quotidiano. Gli incontri, le delusioni, i desideri intessuti in queste pagine ci fanno soggiornare nel punto di incontro, meraviglioso e tremendo, tra esistenza e letteratura. E come la tela di Penelope, continuano a intrecciare i fili di una coperta sotto cui ritroviamo noi stessi.
Scrivere e leggere le vite degli altri è la forma più alta e più umana di salvezza. Raccontare e ascoltare, infatti, ci salva dal dolore perché tutte le sofferenze – le nostre come quelle che hanno sconquassato le anime dei grandi scrittori – sono “sopportabili soltanto se le si inserisce in una storia”. La storia di un’identità irripetibile, di una singolarità unica, di una traccia eccezionale che ha la forma di un destino. Il racconto di queste giornate effimere ed eterne rivela, come direbbe Karen Blixen, “il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi”.
Proprio la scrittrice danese, nel suo romanzo La mia Africa, racconta una storia della sua infanzia che riassume il senso delle pagine biografiche che state per leggere. La storia di un uomo che, nel cuore della notte, si precipita fuori di casa, svegliato da un rumore assordante. Nella tenebra notturna, cerca di capire cosa è successo, cammina, cade, inciampa, rotola nel fango prima scoprire una falla nello stagno, la causa del terribile frastuono. Ma quando l’uomo si sveglia la mattina seguente, ancora scosso dalla terribile nottata, si affaccia alla finestra e distingue chiaramente sul terriccio un disegno preciso: il suo percorso casuale e rovinoso nel fango aveva prodotto nel terreno la nitida sagoma di una cicogna.
Ecco. Questi racconti compongono, dopo che i fatti sono accaduti e che quelle vite si sono spente, il profilo di quella cicogna. Il percorso caotico di una vita che si lascia guardare come una figura completa. Poeti, scrittori e filosofi – con gli errori, le cadute, le debolezze e le scelte di una splendida e uggiosa giornata – hanno tracciato, senza saperlo e senza volerlo, un disegno che solo oggi, attraverso le parole di qualcun altro, possiamo ricostruire e riconoscere. Le “ore” assumono la forma del “sempre”: gli eventi assumono la forma di una storia.
Inutile cercare qui la verità sulla poetica degli scrittori come se le giornate cristallizzate in questi capitoli potessero vincolare o limitare la grandezza dell’opera letteraria alla piccolezza dei gesti quotidiani. Le storie non hanno un singolo autore: sono opera di chi le ha accidentalmente vissute, ma anche di chi le ha sapientemente scritte. Le storie non possono essere spiegate o argomentate con la chiara ed evidente ragione del filosofo: le storie possono solo essere, ancora e per sempre, raccontate.
Filosofia come narrazione. Nessuna verità oltre quella del racconto di attimi di vite che non si sono mai toccate, ma che hanno intessuto la trama del nostro immaginario letterario. Nessuna classificazione oltre quella della narrazione che protegge le nostre differenze dalla minaccia dell’universalizzazione. Nessun cedimento ai “solerti funzionari dell’universale” come Adriana Cavarero definisce i filosofi che eliminano l’unicità incarnata dalla nostra identità.
Filosofia che si rifrange nelle storie singolari – umane e mostruose, terrene e divine – di chi ha abitato assolati deserti e attraversato foreste di tenebra. Di anime che non si accordano all’armonia del mondo, alla ricerca di un’anima stonata allo stesso modo con cui risuonare. Di eroi che hanno sfidato e sconfitto il mostro, ma hanno finito per ospitarne un frammento. Di spiriti selvaggi che hanno scelto di darsi la morte per liberare il dono luminoso della propria esistenza. Frammenti di un prisma che rifrange il miracolo dell’esistere e l’inabitabilità del mondo.
Ma nel raccontare la storia di un Altro si finisce per raccontare di Sé. E queste pagine pulsano come una dissimulata confessione, compongono un’indefinibile auto-etero-biografia che avviene tramite il magico medium della letteratura.
Una corrispondenza di amorosi sensi, dentro e fuori dall’Io, in cui si rimane irretiti e vulnerabili. Non abbiamo un rapporto passivo con queste storie. Anche noi, soltanto leggendo, raccontiamo la nostra versione: intessiamo i nostri fili con le trame di chi ha vissuto al posto nostro ciò che ci racconta intimamente. D’altronde, come scrive in un aforisma Nicolás Gómes Dávila, “i problemi metafisici non assillano l’uomo perché li risolva, ma perché li viva”.
Il testo è tratto dalla mia prefazione al libro Efemeridi di Cesare Catà (Aguaplano, 2017)