Articolo uscito su l’Unità del 15 agosto 2023 – Il 2 luglio 2020 inaugurammo l’edizione più complessa dei dodici anni di Popsophia. Eravamo il primo festival culturale in Italia a riaprire con il pubblico dal vivo dopo il lockdown pandemico, con decine di ospiti provenienti da tutta Italia. Brancolavamo nel buio in un ginepraio kafkiano di regole per la sicurezza, senza modelli o termini di paragone: eventi simili al nostro erano stati rimandati o si svolgevano soltanto online.
Eppure, sentivamo il bisogno di tornare a stare insieme, di tornare a respirare lo stesso ossigeno, di elaborare il trauma collettivo senza precedenti che aveva minato la salute dei nostri corpi e delle nostre anime.
Il tema che avevamo scelto era “realismo visionario”, ispirato al centenario felliniano. Dopo l’annus horribilis in cui l’orizzonte del possibile era stato schiacciato sui drammatici bollettini sanitari e sul linguaggio bellico dell’emergenza, ci era sembrato urgente trovare un modo per aprire lo spazio dell’immaginazione, per riattivare il potere creativo e generativo del linguaggio della narrazione.
Per l’inaugurazione in Piazza del Popolo a Pesaro era necessario uno sguardo potente e visionario. Uno sguardo in grado di trovare parole magiche capaci di aprire le menti in un tempo di chiusura fisica e mentale. Al tempo stesso, dotate della forza carismatica necessaria per parlare di fronte a una piazza piena e disunita, con persone diffidenti e impaurite, ancora costrette a sedersi lontane, a due posti di distanza uno dall’altro.
Chiedemmo di farlo a Michela Murgia. Fin dai primi mesi della pandemia si era dimostrata punto di riferimento di una comunità virtuale di donne e uomini alla ricerca di parole per guardare lontano, in un momento in cui l’orizzonte si era ristretto; sui suoi social aveva costruito un diario eccentrico di un tempo sospeso che – ogni giorno – faceva divertire, indignare, gioire e incazzare.
Aveva deciso di partire dalle storie delle sue “visionarie”, delle sue “morgane” capaci di sognare la propria vita per non vivere nel sogno di qualcun altro. Donne capaci di essere libere dentro una prigione, rompendo dall’interno gli schemi imposti da una società pensata e creata dagli uomini.
Le visionarie non sono semplicemente donne “di successo”, quelle che “ce l’hanno fatta”; le più intelligenti e le più brave, in grado di fare più e meglio degli uomini. Le visionarie sono tutte quelle che hanno avuto vite tortuose e complesse, ma che dai margini sono state in grado di mettere in discussione il modello stesso, per tutte e per tutti.
Non necessariamente delle “femministe”, secondo i canoni rigidi dell’ortodossia che lo stesso femminismo ha stilato; sono donne che hanno saputo abitare la propria incompatibilità, rivendicandola con orgoglio. Nell’ultimo video-messaggio che Murgia ha rivolto al suo pubblico – con la voce e il volto provati dalla malattia – parla di questa apertura alla pluralità dei femminismi, invita a non perdere tempo a levare patenti e a fare processi a chi “non è abbastanza femminista”. Fa un appello alle rigide sorveglianti del comportamento altrui: “siate la porta e non la portinaia”.
Se torno a quel 2 luglio 2020, ricordo che prima della serata le avevo preannunciato – un po’ titubante – la presenza della Factory, la band musicale di Popsophia, che avrebbe eseguito, per introdurre la sua lectio, una canzone manifesto del femminismo rock in salsa italica: Non sono una signora di Loredana Bertè.
Murgia sul momento non aveva detto nulla, ma sul palco, di fronte al pubblico, aveva esordito così: “Alcune potrebbero offendersi per una simile presentazione. Non io. Io mi ci riconosco appieno. Non sono una signora, è vero. Perché quando ti dicono ‘comportati da signora’ intendono dire: ti rispetterò se rimani all’interno del perimetro che abbiamo pensato per te”.
Non a caso, quando nel 1982 Loredana Bertè, con la sua voce roca e malinconica, vince il Festivalbar con questa canzone, per ritirare il premio sale sul palco dell’Arena di Verona con un vestito da sposa bianco, con tanto di velo e coroncina. Ma mentre fa per andarsene dopo l’applauso del pubblico, inciampa sullo strascico e cade rovinosamente. Si rialza subito, prende il microfono e dice fiera: “Ve l’avevo detto che non sono una signora e questo vestito non lo so portare”.
Le visionarie raccontate da Murgia non sono signore “con tutte stelle nella vita”, ma donne le cui vite sono fatte di inciampi e di risalite, donne per le quali “la guerra non è mai finita” perché sono impegnate a rovesciare il canone di una femminilità educata e rispettosa nel quale si sentono strette.
Donne che fanno un percorso tortuoso per avere “una stanza tutta per sé e uno stipendio tutto per sé”, come scriveva Virginia Woolf alla fine degli anni ’20, perché solo così possono permettersi di non cedere sul proprio desiderio. Donne che non vogliono vivere nella “casa di bambola” che hanno costruito per loro; che non ammutoliscono di fronte allo “stai zitta!” del maschio di turno. Come aveva intimato alla stessa Michela Murgia un noto psicologo televisivo.
“Ci dicono sempre ‘questo è il modo in cui devi essere te stessa’, cioè puoi essere tutto quello che puoi, ma non tutto quello che vuoi”. Murgia non cercava esempi edificanti per ribadire una presunta radice univoca della femminilità, ma un’apertura plurale all’autodeterminazione, incarnata da storie diverse, accomunate soltanto dal desiderio di far saltare convenzioni e confini.
Le visionarie “se ne sbattono di piacere agli altri, vogliono piacersi” diceva Murgia. Le storie che raccontava sembravano più autentiche perché lei – così mi è sembrato in quella fugace conoscenza pesarese –incarnava l’asperità di chi non vuole compiacere nessuno né perdersi nei convenevoli affettati, di chi si era liberata dal senso di colpa di non voler “dispiacere” agli altri. Perché le Morgane, come le aveva definite, sono “strane, pericolose, esagerate, stronze e a modo loro tutte diverse e difficili da collocare”.
Murgia era consapevole che la rivoluzione del secondo sesso, come lo chiama Simone De Beauvoir, passa anche e soprattutto tramite l’immaginario della cultura pop. La rivoluzione non avviene solo con le manifestazioni in piazza, ma anche sulle passerelle delle sfilate di moda, sulle copertine delle riviste, sui palchi degli stadi, sullo schermo televisivo, sulle piattaforme dei social.
E in questa scia si inserisce la narrazione social – rivoluzionaria e difficile – della sua malattia e della sua morte, che le aveva dato la possibilità di farsi esempio incarnato dello slogan femminista “il personale è politico”. Ma anche di usare la narrazione per il suo scopo ultimo: rendere sopportabile il dolore inserendo un evento casuale in un destino più ampio, in un ordine di senso collettivo. Come ha scritto Hannah Arendt a proposito di Karen Blixen: “il racconto rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi”.