Articolo uscito su l’Unità del 18/09/2016
Manuel Agnelli debutta come giudice della decima edizione di X Factor ed è subito centro. La sua performance solleva un’ondata trasversale di entusiasmo. E spiega che cos’è il conformismo degli anticonformisti.
L’adesione del leader degli Afterhours al talent show aveva fatto storcere il naso – per usare un eufemismo – al mondo della musica indipendente dove Agnelli e il suo gruppo hanno costruito il loro successo. Svendersi al mondo fatuo della televisione, gli hanno gridato i fan inferociti, è un’onta incancellabile, un peccato senza redenzione: il successo aleatorio e transitorio dei prodotti musicali dei talent è il responsabile primario delle tendenze nefaste del mercato discografico. Puntare su personaggi mediatici di immediato successo non promuove la qualità degli artisti underground. Insomma, la musica è un’arte e non una merce.
Dall’altro lato, anche i fan di X Factor non erano soddisfatti: chi è questo illustre sconosciuto, questo cinquantenne con i capelli lunghi, che sostituisce gli amatissimi giudici delle precedenti edizioni? L’aura di impegnata depressione della musica indie non deve infettare il frizzante ritmo di uno show votato all’enfatico divertimento.
Ma le Cassandre sono state smentite. La prima puntata delle audizioni – complice un montaggio perfetto che ha selezionato battute sferzanti e concorrenti improbabili – ha steso tutti. X Factor colpisce ancora. Il programma è da sempre inclusivo. La giuria del talent – che costituisce il moderno e incontestabile giudizio divino – deve essere composta da quattro amministratori delegati delle diverse tendenze musicali del momento. Per essere efficace agli occhi di un pubblico eterogeneo, deve rappresentare un arcobaleno che include tutto lo spettro dei colori musicali. La scelta è equilibrata se tutte le parti dello show business, dalla trasgressione al mainstream, partecipano alla decisione: da Morgan a Simona Ventura, da Elio a Mika. E anche Manuel Agnelli è entrato a pieno titolo nella stanza dei bottoni per amministrare il suo potere di categoria dietro la scrivania luminescente.
Ma la sua presenza a X Factor segna un’evidente e inedita novità sintetizzata dalla frase con cui ha replicato alla performance deludente di un concorrente: “È il vostro conformismo da anticonformisti che non mi piace”. Manuel Agnelli ha dato voce a un’insofferenza che aleggiava nel pubblico, ma che non aveva ancora trovato espressione: la cosa più detestabile, nel mondo televisivo come in quello indipendente, è il professionista dell’anticonformismo. Quella insopportabile posa dell’outsider che ostenta odio per la televisione in televisione, che professa disprezzo per la società dello spettacolo dietro a un riflettore, che si indigna dopo aver incassato il gettone di presenza.
Ritorna in mente il meraviglioso dialogo tra Paolo Poli e Umberto Eco in una puntata nel programma “Babau” del 1970. “Cos’è il conformismo?” si chiede Eco. “È la cravatta che ti sei messo per venire qui in trasmissione”, lo interrompe Poli. “Ed è il maglione che tu porti per dire che sei un attore e non sei un ospite esterno” ribatte subito Eco. Conformismo e anticonformismo, cioè, sono vasi comunicanti e nessuno può chiamarsi fuori senza scadere nel ridicolo.
Manuel Agnelli, quindi, non si è imposto come paladino di un mondo puro e innocente: “La cosiddetta scena indie di oggi – ha dichiarato – fa schifo, è autoreferenziale e autoghettizzata”. Al contrario, ha usato la sua esperienza e la sua competenza per conferire credibilità ai suoi giudizi in un tavolo di parvenu, per contaminarsi con gli altri senza perdere consapevolezza di sé.
Si è anticonformisti accettando di compromettersi senza accettare compromessi. Non interpretando la macchietta dell’alternativo che deve dimostrare la sua diversità rendendosi insopportabile con ridicola alterigia. Agnelli, in pochi gesti compassati e giudizi argomentati, ha preso sul serio il format e, al contempo, è rimasto un credibile e serio professionista.
D’altronde, la qualità della musica non è indirettamente proporzionale al suo pubblico. Il successo è l’incontro – imperscrutabile e pilotato – tra domanda e offerta. Se la musica “indie” di qualità ottiene un successo di massa e conquista il pubblico televisivo smette di essere buona musica? E, viceversa, la musica popolare e di successo è, per definizione, di cattiva qualità?
Manuel Agnelli ha dimostrato che si è indipendenti per vocazione e non per disperazione.a