Articolo uscito sul quotidiano “Il Riformista” sabato 22 gennaio 2022 – “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso vive lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)”. La famosa favola di Igino detto l’Astronomo, uno scrittore romano del I-II secolo d.C., ci ricorda che la Cura è la materia stessa di cui stiamo fatti, una caratteristica essenziale che ci definisce come esseri umani.
L’atteggiamento di cura, dunque, non è relegato all’ambito meramente patologico e farmacologico, ma determina un modo autentico e originario, propriamente umano, di essere nel mondo: è attraverso la relazione di “cura” che conosciamo e ci riconosciamo. Essere umani vuol dire “essere coinvolti nella Cura”, come dice Martin Heidegger: aver cura di sé, degli altri e delle cose del mondo.
Su questo doppio significato del termine “cura” – clinico ed esistenziale, medico e metaforico – si muove il saggio di Filippo La Porta L’impossibile “cura” della vita, il primo volume della nuova collana Cure, da lui diretta e pubblicata dalla casa editrice Castelvecchi, in collaborazione con l’associazione “Salute, Ambiente, Genoma – SAGEN”.
Il significato del “curare” non si esaurisce nel semplice “guarire” o “salvare”, ma si dipana nella pratica, ben più dispendiosa e indispensabile, del “prendersi cura”. Non il semplice “to cure”, un verbo transitivo che descrive l’attività dell’uomo (il medico guaritore) sull’altro (il paziente guarito); ma un più complesso “to care”, un verbo intransitivo che potremmo tradurre con un “preoccuparsi”, un “essere in pensiero” per qualcosa o per qualcuno che ci sta a cuore.
La Porta esplora questa molteplicità di significati intrecciando la vita e le opere di tre grandi narratori che hanno esercitato, oltre al mestiere di scrivere, anche la professione di medico: Anton Čechov, Louis-Ferdinand Céline e Carlo Levi. Due professioni – quella dello scrittore e quella del dottore – che si sostengono a vicenda: l’arte della parola non può astrarsi da un confronto con la concretezza della realtà materica e della sofferenza corporea; l’arte della medicina non può prescindere dalla molteplicità delle storie individuali e delle narrazioni sociali.
La cura è sempre duplice: la cura del corpo tramite la techne medica e la cura dell’anima, attraverso il pharmakon della letteratura. Una prospettiva olistica che tiene insieme la materia e lo spirito, una terapia che cura le ferite visibili e quelle, altrettanto dolorose, che rimangono invisibili agli occhi. Čechov, Céline e Levi sono tre autori che, scrive La Porta, “hanno curato – coscienziosamente e quotidianamente – sia la physis che la psyche, a volte intrecciando le due attività”; tre scrittori che “hanno saputo auscultare patologie e anomalie” del corpo individuale e del corpo sociale.
Il primo medico-scrittore è Čechov che, con il suo stile asciutto ed essenziale, ha tratteggiato le tante anime della commedia umana ritraendole dal basso, fotografando tutte le sue più recondite debolezze senza mai volerle giudicare. Uno scrittore che non vuole guarire né redimere l’umanità, ma che si limita a sedersi al suo capezzale. Come dice Cristina Campo nel bellissimo ritratto che dedica allo scrittore russo incluso nel suo Gli imperdonabili, Čechov “porta con sé il solo farmaco vero: lo sguardo inconfondibile di chi è pronto a vegliare su di noi”.
Poi Céline che – come Ferdinand Barnamu, il protagonista degli straordinari Viaggio al termine della notte e di Morte a credito – è anche un medico di periferia che, nel suo ambulatorio di Montmartre, spesso curava gratis chi non poteva permettersi di pagarlo. Il “prendersi cura” è qui ancor più lontano da ogni falsa retorica di possibile guarigione: La Porta analizza il fraseggio spezzato con cui Céline ci conduce all’Inferno, in un mondo popolato da corpi sanguinanti e putrescenti, dominato da cinici istinti di sopravvivenza. Un mondo senza bussola dove la vita si sconta vivendo.
Infine, Carlo Levi – l’autore di Cristo si è fermato a Eboli, immancabile presenza nella manualistica scolastica – che ha esercitato la professione di medico durante gli anni del confino nel paesino di Aliano, diventando per le mille sparute anime del borgo lucano un punto di riferimento quasi taumaturgico. E nei suoi scritti non perde quello sguardo tipico del dottore di paese che non si limita a snocciolare tesi e dati asettici, ma osserva i sintomi e costruisce ipotesi diagnostiche a partire dalle storie reali e concrete di pazienti che conosce intimamente.
Il contatto con la fragilità umana ha attivato in questi autori una particolare sensibilità che La Porta fa emergere in forme diverse e spesso antitetiche: da un lato uno sguardo disincantato e cinico sugli inutili affanni della vita mortale, dall’altro un empatico e umano “aver cura” perché quegli affanni sono lo specchio di un destino comune a cui nessuno può sfuggire.
Come scrive lucidamente Čechov: “Sono un medico e abituato a persone che moriranno presto. Mi è sempre parso strano, quando davanti a me parlavano, sorridevano o piangevano individui in procinto di morire; ma qui, quando vedo sulla terrazza la cieca che ride, scherza o ascolta la lettura del mio libro, quello che comincia a sembrarmi bizzarro non è che quella donna morirà, ma che noi non sentiamo la nostra stessa morte e scriviamo libri, come se non dovessimo morire mai”.
La cura della vita, come chiarisce La Porta nelle pagine introduttive del saggio, rimane impossibile perché la malattia inguaribile è la vita stessa, “il disordine è segretamente immanente all’universo – non un incidente – dunque in sé incurabile”. Né l’arte medica né l’arte letteraria possono salvarci dalla precarietà del vivere e dall’insensatezza del morire.
Tuttavia – in questi capitoli sospesi tra medicina e letteratura, tra ambulatorio e macchina da scrivere – riscopriamo il senso originario della Cura di cui raccontava la favola di Igino, il senso autentico del “prendersi cura” che, anche se non può guarirci, ci rende pienamente umani.