Articolo uscito su “Il Riformista” del 16 febbraio 2023 – La prima apparizione del termine “catastrofe” – nel significato che noi oggi attribuiamo a questo termine, ossia come “disastro naturale”, così come compare nelle didascalie delle foto e dei video che in questi giorni ci arrivano dalla Turchia e dalla Siria – è legata proprio a un terremoto.
Il terremoto più tragico e traumatico di tutta la storia europea: il terremoto di Lisbona avvenuto il primo novembre del 1755. Durante la festa di Ognissanti di più di 260 anni fa una scossa di quasi sei minuti causa la morte di decine di migliaia di persone e la distruzione di gran parte della città. I sobbalzi della terra provocano anche un violento maremoto: un’onda di 15 metri si abbatte sulla città, sommerge le macerie e si porta via molti dei superstiti. La terra trema, crollano case e palazzi, la forza del mare sfracella le navi e inghiotte le strade, divampano incendi e roghi: 60.000 persone muoiono in pochi minuti.
“Il terremoto che il 1° novembre 1755 distrusse Lisbona non fu un disastro come tanti altri, ma in molti aspetti fu unico e sorprendente”: le parole sono di Walter Benjamin che il 31 ottobre 1931 realizza una serie di trasmissioni radiofoniche dedicate ai disastri per un’emittente di Berlino. Il terremoto di Lisbona non è paragonabile ad altri disastri, non tanto per l’entità dei danni e delle perdite, ma per la vicinanza geografica rispetto alle calamità la cui eco lontana arrivava dall’America latina o dalla Cina: Lisbona è all’epoca una città di importanza centrale, quarta per numero di abitanti dopo Londra Parigi e Napoli, uno dei più importanti imperi coloniali dell’epoca, sede di un importante porto commerciale, avamposto di espansione verso il nuovo mondo, la via di accesso all’oro e ai diamanti al tabacco e al caffè.
Benjamin sottolinea come la narrazione di questa catastrofe naturale rappresenti uno dei primi esempi di giornalismo europeo, smuove le coscienze di un’embrionale opinione pubblica. La notizia del terremoto di Lisbona, infatti, si diffonde rapidamente nel continente, la stampa dell’epoca descrive dettagliatamente i fatti, riporta il racconto dei testimoni oculari, ricostruisce con accuratezza le tragiche conseguenze e l’entità delle perdite. La prima vera catastrofe narrata “mediaticamente”, che si amplifica attraverso i media che diffondono un vero e proprio contagio emotivo, una cassa di risonanza della paura e dell’angoscia, ma anche un veicolo delle domande che un evento così traumatico portava con sé.
Una tragedia che scuote l’avamposto della civiltà europea, fa tremare le coscienze di un’intera generazione e fa discutere per decenni giornalisti, tecnici, filosofi, politici, predicatori, liberali e moralisti. L’ampio dibattito filosofico sulla catastrofe di Lisbona ha coinvolto nomi del calibro di Voltaire, Jean-Jacques Rousseau, Immanuel Kant ed è stato appena ripubblicato in Italia dalla casa editrice Raffaello Cortina con la curatela di Andrea Tagliapietra che scrive un imprescindibile saggio introduttivo sulle domande drammaticamente attuali aperte dal sisma.
“Mai il demone del terrore aveva avvolto tanto velocemente la terra nel suo brivido” scrive Goethe in Poesia e verità ricordando a 60 anni di distanza come la notizia avesse scosso la sua tranquillità di bambino di sei anni. “Poi vennero i timorati di Dio con le loro prediche, i filosofi con i loro argomenti consolatori, e non fecero mancare paternali allo spirito”.
“Contro gli abusi che si sono potuti fare dell’antico assioma tutto è bene” scrive Voltaire nel Poema sul disastro di Lisbona. Si tratta di un pamphlet scritto e pubblicato a pochi mesi dalla catastrofe, già stampato nell’aprile del 1756, che avrà un enorme successo. Niente più del terremoto, infatti, mette in crisi la nostra credenza in un provvidenziale ‘ordine buono’ che governa l’andamento degli eventi, niente più di una catastrofe come questa demolisce l’ingenua fede nell’ottimismo.
Il terremoto fa tramontare la teodicea. Il poema volterriano è un inno ribelle contro chi giustifica quietamente l’esistenza senza scandalizzarsene, contro chi non si stupisce della sofferenza degli innocenti, contro chi rimane indifferenze di fronte al dolore insensato di chi non ha colpa.
“Filosofi fallaci che gridate tutto è bene / accorrete, contemplate queste tremende rovine”: la catastrofe ci obbliga alla visione di uno spettacolo scandaloso, di uno squilibrio informe, di un caos senza cosmos.
“I savi del luogo – aggiunge Voltaire nel suo Candide – non avevano trovato di meglio, per scongiurare una totale rovina, che offrire al popolo un bell’autodafé”. Lo spettacolo delle persone bruciate sembra l’unico modo per impedire alla terra di tremare. “Se questo è il migliore dei mondi possibili, che saranno dunque gli altri?” si chiede Candido. Voltaire, insomma, non incrina soltanto l’ottimismo del lieto fine, ma anche la superstizione che cerca innocenti capri espiatori. “Il mio lamento è innocente e le mie urla legittime” dice Voltaire: il filosofo non può permettersi di guardare la catastrofe a distanza come se fosse qualcosa che non lo riguarda. Il filosofo è sollecitato, coinvolto, commosso, indignato in prima persona.
L’Illuminismo legge il terremoto con la ragione e la scienza, senza gli alibi della provvidenza e del castigo: di fronte al conto di tante vite innocenti cadono le ragioni della Provvidenza, di fronte alle rovine degli antichi palazzi si perdono gli ancoraggi delle stelle fisse del passato. Si apre un tempo nuovo.
“La paura della morte, la disperazione per la perdita completa di tutti i beni e infine la vista di altri infelici abbattono anche gli animi più coraggiosi” aggiunge il giovane Immanuel Kant (all’epoca poco più che trentenne, divenne professore solo 15 anni più tardi). Anche lui scrive a pochi mesi di distanza dalla scossa di Lisbona, alle quale dedicherà ben tre scritti. Lo spirito illuminista del filosofo tedesco reagisce cercando di razionalizzare l’evento: alla spiegazione superstiziosa contrappone la spiegazione scientifica che inaugura l’odierna sismologia riempiendo il testo di dati e teorie, di osservazioni empiriche e misurazioni.
Però aggiunge sconsolato: “Noi abitiamo tranquilli su un suolo le cui fondamenta vengono di tanto in tanto scosse. Edifichiamo senza darci troppo pensiero su volte, le cui colonne talvolta vacillano minacciando di crollare”. Tendiamo a dimenticare quella “rovina che se ne sta celata in agguato anche sotto i nostri piedi”.
Le catastrofi ci richiamano alla radice ultima della nostra condizione: “Ecco che assumono un senso tutte quelle devastazioni che lasciano intravedere l’inconsistenza del mondo persino in quelle cose che ci appaiono come le più grandiose e le più importanti: esse ci rammentano che i beni di questa terra non potranno in alcun modo soddisfare la nostra brama di felicità”.
Desideriamo che il mondo sia totalmente conoscibile e controllabile, ma di fronte alla catastrofe siamo passivi e impotenti spettatori.
Oggi qualcuno vuole rimanere ancora cieco di fronte a queste evidenze – alzando muri e veti dove c’è solo distruzione e sofferenza. Mentre l’unica possibilità di fronte a un simile disastro è far tesoro di questa amara consapevolezza: il terremoto sgonfia tutti i desideri di predominio e di conquista, azzera tutte le divisioni e le differenze; ci consegna alla nostra costitutiva impotenza e limitatezza, alla totale vulnerabilità che condividiamo con il genere umano.
Di fronte alla catastrofe, rimane solo – e non è poco – la nostra fragilità condivisa.