La seconda puntata della rubrica “La diritta via” su Il Riformista di giovedì 14 gennaio 2021 – Li incontriamo nell’anticamera dell’inferno, sono mischiati ai ‘neutrali’, “a quel cattivo coro di angeli egoisti, non ribelli a Dio ma neppur fedeli”. “Coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”. Gli ignavi. Sono definiti così scomodando il termine latino “ignavus”, l’aggettivo composto da “in” privativo e “gnavus/navus” che significa attivo, operoso.
Si tratterebbe dunque di persone pigre, di persone inattive. Pusillanimi? Non esattamente. Nel caso della Divina Commedia non ci si riferisce tanto all’attività fisica, quanto alla pigrizia sociale. L’ignavo dantesco è la persona che non fa scelte politiche. È uno che non affronta le conseguenze che potrebbero derivare dalla sua collocazione politica, se non addirittura partitica.
Incontrando i cosiddetti ignavi (un’attribuzione – in realtà – mai usata nella Divina Commedia, ma nata in seno alle interpretazioni successive), Dante li bolla come vili.
“Misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, il celebre verso diventato modo di dire comune, magari nella sua storpiatura più famosa “non ti curar di loro, ma guarda e passa”.
Fanno un tale disgusto che “la lor cieca vita è tanto bassa, che ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte” e non sono nemmeno degni dell’inferno. Dante sa che non hanno violato alcun precetto morale e giuridico, eppure li disprezza al punto tale da condannarli. “Questi sciaurati, che mai non fur vivi” sono tenuti fuori dall’inferno, ma non sono immuni dalla pena. Dante infligge loro una terribile ‘non condanna’: “erano ignudi e stimolati molto da mosconi e da vespe ch’eran ivi”. Loro che non hanno mai seguito alcuna bandiera, dovranno correre senza sosta dietro una “nsegna”, “che girando correva tanto ratta, che d’ogne posa mi parea indegna”.
Colui che durante la sua vita non ha agito né nel bene e né nel male, che non ha scelto, che non ha espresso una sua idea, che si è sempre adeguato alle situazioni che di volta in volta si presentavano, che a volte è stato anche opportunista, che ha cambiato idea a seconda di chi fosse il vincitore: ecco costui non viene messo all’inferno. È talmente spregevole la sua condotta che neanche lo merita.
La non volontà lo ha rovinato. è una persona che ha avuto sempre paura di scegliere, che non ha mai preferito una parte, che neanche una volta ha considerato la differenza tra i contendenti, che non ha mai ‘differito’, che sostanzialmente è un in-differente.
L’indifferente è senza fama. L’ignavo è un in-fame: “Fama di loro il mondo esser non lassa”.
L’infame in politica ritorna prepotente alla fine del XVIII secolo, quando la faziosità giacobina manda alla ghigliottina il disimpegno durante gli anni del Terrore. Da allora l’indifferenza diviene il bersaglio di ogni battaglia sociale, dal Risorgimento ai futuristi, dai garibaldini ai socialisti.
Per dirla con le parole del filosofo ebreo Elie Wiesel, superstite dell’Olocausto: “l’opposto dell’amore non è odio, è indifferenza. L’opposto dell’arte non è il brutto, è l’indifferenza. L’opposto della fede non è eresia, è indifferenza. E l’opposto della vita non è la morte, è l’indifferenza”.
La sentenza definitiva la pronuncia Gramsci: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Il male che si abbatte su tutti avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.”
Dopo le esecrazioni lanciate da D’Annunzio, queste parole di Gramsci del ‘17 maledicono senza appello le ristrettezze morali del piccolo borghese. Siamo agli albori di una condizione del presente: l’indifferente è moralmente inferiore, il partigiano è moralmente migliore.
La partigianeria militante attraverserà potente tutti i decenni del ventesimo secolo. È stato il cavallo di battaglia dell’interventismo e del successivo imperativo morale fascista, per diventare poi la motivazione di fondo della Resistenza, fino al suo ringiovanimento nel Sessantotto.
Alla fine del secolo scorso la condanna dantesca si è fatta istituzione aprendo una lunga stagione moralista: pane quotidiano di ogni insegnante, di ogni predicatore, di ogni politico. Si è istituzionalizzata nelle scuole, nelle chiese, nelle prefetture, nelle redazioni dei giornali. Nulla al presente lascia presagire che le celebrazioni pubbliche la sottopongano a revisione.
Il peccato originale non sarà più cancellato e come disse Alberto Moravia per Gli Indifferenti: “se il romanzo viene considerato antiborghese, la colpa è della borghesia stessa”.
E così arriviamo ai giorni nostri: la condanna dantesca nella versione gramsciana è addirittura andata in scena alla Scala. La lettura della citazione di Gramsci sull’odio per gli indifferenti è stata riproposta in occasione della prima scaligera della stagione 2020 in versione virtuale.
L’infamia è dunque sopravvissuta ai guelfi e ai ghibellini del Trecento e ancora oggi il peccato di ignavia è stigmatizzato a gran voce: il disprezzo senza appello è assicurato a quanti, come scrive Gramsci, “stanno alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano e si svenano”.
Nessuno però da casa è sobbalzato sul divano chiamato in causa dall’accusa gramsciana. Nessuno è fuggito per le scale divorato dal senso di colpa. L’indifferente di cui parla Gramsci sarà pure il borghese medio, ma non è certo lo “spettatore medio”. Forse qualche vicino di condominio, ma l’indifferente non abita certo in questa casa, in questa famiglia nessuno pecca di ignavia! Tutti hanno applaudito virtualmente la condanna degli indecisi.
Anche sulla certezza della pena per la colpa della non partigianeria lo spettatore medio non ha dubbi, anzi va detto che è riuscito ad assicurarne l’immediata esecutività grazie ai social media. Ogni mattina il leone da tastiera, sempre munito di un’opinione partigiana ben definita, si aggira tra le notizie e azzanna l’indifferente di turno allo stomaco, il suo organo più prezioso.
Oggi, però, non è un lavoro facile: abbiamo belle e ridondanti condanne, ma incomincia a scarseggiare la materia prima. In un mondo dove basta un like per prendere posizione, tutti hanno l’obbligo di avere un’opinione istantanea su tutto. In un mondo diviso tra follower e haters, è sempre più difficile essere neutrali. Dove sono finiti gli indifferenti?
Siamo giunti ad un vero e proprio ribaltamento del problema: non si trovano più gli indifferenti perché sono stati sostituiti da un esercito di partigiani da divano e di attivisti di professione. Una perfetta mediazione: ci si è attrezzati per raggiungere la comodità dell’indifferenza, senza perdere la purezza della faziosità.
Il compromesso ha avuto i suoi tempi. La sopravvivenza dei peccati e la scomparsa dei peccatori è il risultato di una lunga traversata nel deserto dell’ignavia iniziata negli anni Ottanta, man mano che ci si allontanava da “La vita difficile”, per parafrasare il film di Dino Risi. E oggi basta poco per salvarsi l’anima: sottoscrivere l’ennesimo appello online, cavalcare lo scandalo di tendenza, condirlo con un po’ di retorica paternalista e il posto in paradiso vien da sé.
Nessuno deve più nascondere la propria pigrizia sociale: possiamo tranquillamente rimanere indifferenti a tutto, scandalizzandoci di tutto. E indignazione dopo indignazione abbiamo raggiunto il porto sicuro: abbiamo il peccato da stigmatizzare, ma non i peccatori da punire!
Ora che gli ignavi sono spariti, è venuto il tempo di rimpiangerli. Ora che il virus dell’intransigenza è dilagante, è più che mai necessario un vaccino contro le banalizzazioni della retorica della “parte giusta”.
Forse ha ragione il filosofo Sebastiano Ghisu con il suo Elogio dell’indifferenza. “Se da una parte l’indifferenza si colloca al di qua del bene e del male – ci ricorda nel suo saggio – dall’altra risulta essere ciò che rende oggi possibile la tolleranza e istituisce in tal modo un’etica che nel nostro tempo non può che presentarsi come indifferente a ogni forma di identità”.
L’obbligo di prendere posizione ha annientato il potere del dubbio. Il dovere di schierarsi pro o contro ha appiattito le complessità. Scegliere una bandiera sotto cui militare senza se e senza ma rischia di sortire l’effetto opposto: annullare il potere della distanza critica e favorire l’intolleranza.
Forse degli indifferenti abbiamo bisogno, perché oggi davanti alla porta dell’inferno non staziona più nessuno.