LA DIRITTA VIA 10 / Invito al viaggio

La decima puntata della mia rubrica dantesca su “Il Riformista” di mercoledì 12 maggio –Di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia”. Tante fiammelle vaganti si muovono per il fossato come “lucciole giù per la vallea”. E “ogne fiamma un peccatore invola” e “si move ciascuna per la gola del fosse”. “Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso”: i dannati sono nascosti all’interno di quelle fiamme che li bruciano dall’interno.  

Giorgio De Chirico, Il ritorno di Ulisse

Mi dolsi” confessa Dante perché in quelle fiammelle ci sono uomini di ingegno, uomini nobili e degni di fama che peccarono abusando proprio della dote dell’intelligenza. Il canto XXVI dell’Inferno, infatti, è dedicato alla bolgia dell’VIII cerchio che raccoglie i consiglieri fraudolenti, coloro che hanno ingannato il prossimo per favorire la propria grandezza o quella della propria parte politica. 

Chi in vita è stato bruciato dalla tentazione dell’astuzia, per contrappasso, trascorre l’eternità dentro una fiamma incandescente, colpevole di aver preferito l’intelligenza alla virtù, la scaltrezza alla morale. Un rapporto tra peccato e pena motivato anche dalla somiglianza lessicale tra calliditas (astuzia) e caliditas (calore). 

Chi è ‘n quel foco che vien sì diviso di sopra” chiede Dante a Virgilio, riferendosi alla fiamma divisa in due che procede verso di loro. Là dentro si martira Ulisse e Diomede”, risponde il poeta latino, “così insieme a la vendetta vanno come a l’ira”, subiscono insieme la meritata punizione dopo aver compiuto azioni contro l’ira divina.

I due, spiega Virgilio, scontano tre imprese: “l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme”, la frode del cavallo di Troia; l’aver sottratto Achille, nascosto sull’isola di Sciro, all’amore della figlia del re Deidamia; l’aver organizzato il rapimento del Palladio, la statua sacra dalla città di Troia. Questa, dunque, la colpa di Ulisse: aver usato la frode e l’astuzia, in contrasto con le norme morali e religiose, per raggiungere i suoi scopi. 

Non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi”, Virgilio li prega di raccontare la loro fine misteriosa, di svelare in quale luogo senza ritorno andarono a perdersi e a finire la loro esistenza. 

La duplice fiamma si agita e“la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori”. È Ulisse stesso a raccontare la storia che Omero ha lasciato incompiuta, la storia del suo ultimo viaggio. 

Ulisse non muore a Itaca, riparte per “l’alto mare aperto”.

Né dolcezza di figlio, né la pietà / del vecchio padre, né ‘l debito amore” poterono placare la sete conoscitiva di Ulisse. Non i doveri paterni verso Telemaco, non quelli di figlio nei confronti del padre Laerte, non il debito verso Penelope, la sposa fedele che lo aveva aspettato, lo hanno trattenuto dal ripartire. 

Niente può vincere “l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”. Ulisse “sol con un legno e con quella compagna piccola”, con i compagni sopravvissuti alla guerra, salpa dalla sua patria ritrovata e riprende la via del mare. Riprende il viaggio della conoscenza, spinto da un’inguaribile curiositas che vuole svelare tutti gli arcani del mondo. Il desiderio di fare esperienza del mondo, una spinta alla conoscenza che unisce il coraggio di chi è pronto ad affrontare i rischi e l’orgoglio di chi rifiuta i limiti della ragione umana. 

Ulisse con la sua sparuta compagnia arriva “dov’Ercule segnò li suoi riguardi acciò che l’uom più oltre non si metta”. Non plus ultra, non oltre si sono spinti i naviganti. “Vecchi e tardi” raggiungono lo stretto di Gibilterra che segna il limite della conoscenza umana,

Ulisse, consapevole che gli rimane poco da vivere, vuole oltrepassare le colonne d’Ercole, vuole fare esperienza del “mondo sanza gente”. Così, convince i compagni con una vera e propria “orazion piccola”, concisa e solenne. Sono i versi più famosi del canto, tra i più citati dell’intera Commedia: “considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”

I remi diventano ali e non puntano più verso Itaca, ma verso un Altrove. Ulisse arriva perfino a vedere una montagna “alta tanto quanto veduta non avea alcuna” ma non può raggiungerla. È la montagna del Paradiso terrestre, la montagna che non può essere conquistata. Così finisce il viaggio: la barca di Ulisse e dei suoi intrepidi compagni di viaggio viene inghiottita nel mare. “Infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”. 

Così si chiude il racconto del “folle volo” della fiammella infernale. L’Ulisse di Dante, indubbiamente influenzato da fonti latine, è molto diverso dall’Ulisse omerico. Il viaggio dell’Odissea è mosso dalla nostalgia della patria, è un viaggio orientato verso casa; l’alba di un nuovo giorno sorge nel momento in cui la barca di Ulisse raggiunge la costa dell’isola itacese. Omero costruisce un percorso circolare che parte da Itaca e torna a Itaca, ritrovando le cose e le persone desiderate. 

La finalità ultima del pellegrinaggio nostalgico di Odisseo è il nostos che in greco vuol dire “ritorno”. Una parola che ritorna costantemente nel poema omerico: Ulisse “consumava la vita sospirando il ritorno (nostos)” scrive Omero. Non a caso il termine nostos è all’origine della parola nostalgia che letteralmente significa “dolore per il ritorno”: un sentimento che originariamente descrive la brama di tornare a casa propria, lo struggimento dell’esule che rimpiange la terra natia. Patria ubi bene

Indubbiamente il viaggio di ritorno dell’eroe prevede il superamento di continui pericoli e ostacoli; il viaggio verso la méta è continuamente interrotto dall’istintiva attrazione per ciò che è estraneo, inquietante e meraviglioso. L’Odissea è un viaggio tra creature mostruose e leggendarie che tentano in ogni modo di affabulare, ingannare e sedurre il nostro eroe. Alla fine, però, come ogni esule che si rispetti, Ulisse torna a casa e ritrova i suoi affetti, che non hanno mai perso la speranza. 

Dante, invece, ci regala il ritratto di un viandante moderno, modello per i poeti romantici e per gli artisti del Novecento, non più vittima di un fato incontrollato, ma artefice del proprio destino. Il nostos, il viaggio di ritorno a casa, si trasforma in un exodos, un salpare verso l’ignoto senza ritorno. Una ricerca di senso votata al fallimento, destinata a non culminare in una conoscenza completa e proprio per questo degna di essere intrapresa. Il viaggio più importante e, al contempo, più pericoloso. Un pellegrinaggio ab-solutus: privo di ogni certezza e, al contempo, libero da ogni legame. Un mondo frammentato e scisso, quindi, è la patria del viandante, costantemente in pellegrinaggio da un posto all’altro perché la méta – scrive Baudelaire – “si sposta; / se non è in alcun luogo, può essere dappertutto”.

Un invito al viaggio, dunque, in cui siamo tutti imbarcati: non c’è più terra ferma e il navigante si fa naufrago nei gorghi dell’esistenza. Dall’ottava bolgia infernale ci giunge un invito che, in questi tempi claustrofobici, ha il potere di scuoterci.

Il viaggio è un archetipo centrale della cultura occidentale: dal Grand Tour dei giovani aristocratici del passato al viaggio alla deriva degli esuli, con le gambe degli uomini si muovono anche pensieri, desideri e speranze. L’esistenza stessa, ci ricordano gli antichi, è navigatio vitae aperta verso il futuro. 

In questi mesi ci siamo crogiolati nella nostalgia di viaggi già compiuti, abbiamo usato l’immaginazione per viaggiare dentro i confini ristretti della nostra casa. “Puoi viaggiare dal tuo divano” è diventato lo slogan promozionale dei tanti Netflix della cultura.

Anche se il nostro “folle volo” sembra assomigliare in realtà a quello del protagonista del quadro di Giorgio de Chirico Ritorno di Ulisse. A fare da sfondo alle peregrinazioni di Ulisse, alter-ego del pittore ormai ottantenne, non è più il Mediterraneo popolato da meraviglie e terrori, ma un paesaggio più intimo e familiare: la sua camera da letto. Il marinaio è ai remi di una barca immersa in un mare domestico, che gira in tondo in un vortice di onde sul pavimento. 

Forse, possiamo ancora spingerci al di là delle colonne d’Ercole, ma solo immergendoci in un viaggio visionario che ripercorre il perimetro delle stanze della nostra mente. “La mia camera è un vascello fantastico, ove posso fare viaggi avventurosi, degni di un esploratore testardo” scrive De Chirico.

E se davvero non siamo fatti per “viver come bruti”, non possiamo fare altro che trovare il coraggio per rimetterci in viaggio verso un nuovo mondo ignoto. Con in mente i versi che Alfred Tennyson mette in bocca al suo novello Ulisse: “Non posso smettere di viaggiare: berrò / Ogni goccia della vita / […]. Com’è sciocco fermarsi, finire, / Arrugginire non lucidati, non brillare nell’uso! / Come se respirare fosse vivere! Vita ammucchiata su vita. […] Venite, amici miei, / Non è troppo tardi per cercare un mondo più nuovo. […] Noi non siamo ora quella forza che in giorni antichi / Mosse terra e cieli, ciò che siamo, siamo; / Un’eguale indole di eroici cuori, / Indeboliti dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà / Di combattere, cercare, trovare, e di non cedere”.