La banalità del bene e la filosofia di Jovanotti

l’Unità 25/09/16 – Jovanotti ha cinquant’anni. Sembra un paradosso, ma l’eterno ragazzo, il Gianni Morandi degli anni duemila, il Peter Pan della musica leggera è un cinquantenne.

E con i cinquanta arriva il tempo dei bilanci. Che cosa è rimasto dell’edonismo spensierato del dj scoperto da Claudio Cecchetto che faceva ballare la generazione del “gioca jouer”? Che cosa ne è stato del giovane impacciato che rappava con il cappello al contrario e si scatenava con “Gimme Five” alla fine degli anni ’80?

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Sono passati quasi trent’anni da “Mi chiamo Jovanotti, faccio il dj, non vado mai a dormire prima delle sei”. Ma, diventato famoso da ragazzino, Jovanotti non è stato travolto e cancellato dal successo immediato, non è restato un fenomeno stagionale destinato a ripetere ossessivamente la sua prima hit nelle sagre di paese in giro per l’Italia, sfuggendo al triste destino di molti altri suoi colleghi di quella stagione musicale.

Dal suo primo successo discografico “è qui la festa” fino alla colonna sonora dell’ultimo film di Muccino “L’estate addosso”, la sua voce nasale, la sua zeppola e le sue stonature hanno conquistato un pubblico sempre più vasto. Ed è diventato un fenomeno pop che fa parte del tessuto politico e culturale dell’Italia degli ultimi decenni: da Veltroni che sceglie “Mi fido di te” come colonna sonora della campagna elettorale a Nanni Moretti che nel film “Aprile” canta “sono un ragazzo fortunato”, passando per Mario Monicelli che inserisce una sua canzone in “Parenti serpenti”.

Una carriera stellare scaturita, però, dalla sua capacità camaleontica di reinventarsi e di crescere insieme al suo pubblico, inglobando forme e influenze diverse. Un nomadismo musicale alla Bruce Chatwin, come dimostrano i suoi diari di viaggio raccolti nel libro “Il Grande Boh”, che continua a cercare l’ombelico del mondo smontando la tenda e ripartendo per un nuovo approdo.

Una poetica è rigidamente orientata al completo sincretismo. Una poetica politeista che unisce in un grande calderone pop tutte le ideologie e tutte le religioni, che costruisce “una grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa”.

Per questo, tutte le sue canzoni rimangono ammantate di questo fascino travolgente della vaghezza. Un entusiasmo che “di-vaga” da una cosa all’altra, che svolazza di fiore in fiore, che sprofonda in una vertigine della lista delle cose che rendono il presente degno di essere vissuto, senza troppo preoccuparsi del domani.

Ascoltare Jovanotti, quindi, ci consente di rimanere attaccati alla piacevole idea che nella vita si possa essere felici soltanto facendo ciò che ci piace. Insomma: “Non dirmi cosa è giusto, ma cosa ti è piaciuto”.

Ma soprattutto, Jovanotti è stato e rimane il poeta del “penso positivo”. Dall’ottimismo giovanilista senza se e senza ma, alla sua versione attuale, più matura, più intimista e, forse, più realista. Jovanotti vede le brutture del mondo, ma non smette di meravigliarsi e di credere nel miglioramento. Come ha detto il filosofo pessimista Manlio Sgalambro: “Jovanotti esprime una positività gioiosa, francescana”. È la “banalità del bene” che assurge a paradigma culturale.

Una semplificazione che ha fatto storcere il naso a una lunga schiera di detrattori che ci hanno visto solo un infaticabile fancazzismo. Ma quello di Jovanotti è soprattutto un invito vitalista a stare bene nel mondo scommettendo sul sole e tenendo lontane le nuvole: “se la gente mormora falla tacere praticando l’allegria”.

Senza paura di scadere in un melenso buonismo, Jovanotti continua a raccontarci che il mondo ha più possibilità di ieri. E anche se la catastrofe fosse imminente, anche se il pessimismo della ragione avesse le sue ragioni, sarebbe comunque preferibile danzare spinti dall’ottimismo della volontà: “Mandiamoli a cagare, i bulli e i vittimisti, gli indignati di mestiere, i fondamentalisti”.

Una sorta di antidoto pop al cinismo post-moderno, di inno alla gioia contrapposto ai lamentosi manifesti degli scontenti. Un farmaco contro gli slogan del “si stava meglio quando si stava peggio” che finiscono per appiattire tutto in una notte indistinta in cui tutte le vacche sono nere. “Di tutte le abitudini di chi si occupa di cultura a qualsiasi livello quella che mi piace meno è la nostalgia. Quell’attaccamento a un passato ideale che invece è una grande bugia” scrive Jovanotti in “Viva tutto!”, un libro che raccoglie il suo scambio di email con il filosofo Franco Bolelli.

La mission delle sue ballate romantiche e delle sue hit che fanno ballare gli stadi, insomma, è risvegliare una vitalità propulsiva che ci faccia guardare il presente con un occhio meno malinconico e più meravigliato, che ci consenta di risvegliarci da un universo di passioni tristi. Costruendo una carrellata di immagini che si intrecciano con il nostro vissuto, Jovanotti crea una corrispondenza di amorosi sensi che non ha confini. Un’eterna dichiarazione d’amore che ci fa scoprire meno soli e anaffettivi di quanto pensiamo di essere.

Jovanotti è la nemesi dell’artista tormentato e sofferente, che brucia la sua vita in pochi anni e denuncia i mali del mondo correndo dietro ai dietrologismi. Al contrario, Jovanotti è il cantore del godimento che crede ancora nella forza travolgente dei piccoli piaceri della vita.

Per questo Jovanotti, dai suoi seguitissimi post sui social ai suoi impetuosi tour negli stadi, è il guru di generazioni diverse, dei genitori quarantenni che vanno ai concerti con i figli.  I suoi fan, di tutte le età, gli gridano con affetto incondizionato: “mi fido di te”.

Quando è diventato padre e ha dedicato alla figlia la malinconica canzone “Per te”, ha traghettato un’intera generazione nell’età adulta. Ma ciò che il pubblico continua a chiedergli per i suoi cinquant’anni è di non crescere troppo, di rimanere un giovanotto scanzonato e innamorato alle prese con i primi palpiti d’amore, con le intramontabili feste dell’estate, con la vitalità travolgente dell’infanzia. E lui lo accontenta rassicurandolo: “Ho salutato la mia gioventù per ritornare bambino”.

Jovanotti ci tranquillizza: in “questi giorni impazziti” non siamo solo la generazione degli immaturi, ma quella degli “immortali”.