IL PESO DEL PENSIERO – La filosofia del corpo di Jean-Luc Nancy letto da Recchia Luciani

ARTICOLO USCITO SU “IL RIFORMISTA” IL 17/12/2022 – “Assenza più acuta presenza”. Il verso di Attilio Bertolucci riassume il senso del lavoro che Francesca Romana Recchia Luciani dedica alla figura di Jean-Luc Nancy, il filosofo strasburghese scomparso il 23 agosto del 2021. Il saggio Jean-Luc Nancy. Il corpo pensato – appena uscito per Feltrinelli nella collana “Eredi” diretta da Massimo Recalcati – fa i conti con il vuoto lasciato dalla morte del maestro e con l’assoluta presenza della sua riflessione, traccia indelebile di un’eredità resa ancora più fertile dalle urgenze dell’attualità. 

Non una semplice e asettica monografia che si limita a ripercorrere cronologicamente la produzione di uno dei più importanti pensatori del secondo Novecento, disseminata in una grande quantità di saggi, articoli, conferenze, incontri, interviste. Ma una navigazione personale e intima nel fiume in piena del suo pensiero le cui acque – per usare le parole di Recchia Luciani – “crescono continuamente arricchendosi dell’immissione di nuovi affluenti, di torrenti, di ruscelli più o meno robusti, di fiotti e di zampilli che aggiungono sempre inaspettate intuizioni”.

D’altronde la produzione di Nancy – estranea alle parcellizzazioni infeconde e al linguaggio sterile di molte ricerche accademiche – mette insieme mondi lontani nel tempo e nello spazio, temi personali e politici, riferimenti autobiografici e ricerche iconografiche, cucendoli insieme con una scrittura densa e piena di neologismi stimolanti. Chi è disposto all’ascolto viene condotto in un percorso vertiginoso – tra filosofia, medicina, scienza, arte e teologia – che conduce ad approdi imprevisti.

Seguendo il fil rouge dell’autrice, ci imbarchiamo in un viaggio dove non c’è distanza tra il corpus delle opere e il corpus del maestro; non c’è separazione tra il corpo astratto indagato dalla filosofia e il corpo concreto incarnato dal filosofo.

In queste pagine siamo invitati a un corpo a corpo con la storia del pensiero occidentale, un’interrogazione infinita – da Corpus, il denso saggio pubblicato nel 1996 al recente Sessistenza, la cui traduzione italiana uscita nel 2019 per Il Melangolo è curata dalla stessa Recchia Luciani – che smonta le nostre convinzioni intorno al tema del “corpo”. 

Hoc est enim corpus meum, questo è il mio corpo. La riflessione di Nancy decostruisce i pilastri della filosofia del corpo occidentale, a partire dalla granitica eredità del cristianesimo. Un gioco del pensiero che ci aiuta a ribaltare i pregiudizi del dualismo anima/corpo e ci libera dalla convinzione che separa radicalmente interiorità ed esteriorità.

Abbiamo rimosso il “peso del pensiero”, ci spiega Nancy. Abbiamo trascurato il fatto che esiste un rapporto stretto tra “pensare” e “pesare”: il pensiero ha sempre un corpo, una materialità da cui non possiamo prescindere.

Erroneamente pensiamo che il rapporto con il nostro corpo sia nel campo dell’avere: “io ho” un corpo, possiedo o perdo il mio corpo, modifico il mio corpo, come se fosse una cosa tra le cose di cui disponiamo. In realtà quando parliamo di corpi orbitiamo nella sfera dell’essere e dell’esistere: “io sono” il corpo, un corpo vissuto che non posso dismettere.

Anzi. Io non sono altro che il mio corpo, è attraverso la mia bocca che pronuncio l’espressione incarnata “ego sum, io sono”.  Non esiste, dunque, un soggetto astratto e incorporeo; siamo sempre “mente incarnata” e “corpo pensante” ci ha spiegato Nancy ben prima che la neuroscienza lo dimostrasse con le ricerche degli ultimi anni.

Ma questa consapevolezza – esplicita con chiarezza Recchia Luciani – per Nancy si declina sempre al plurale: “noi siamo” il corpo. Il nostro “essere corpi” è una caratteristica comune a tutti gli essere umani, è forse l’unico tratto collettivo che ci unisce, non un mero possesso individuale che ci divide. Essere singolare plurale, come il titolo di uno dei suoi saggi più famosi.

Ecco il fondamento della co-ontologia corporea di Nancy. Siamo corpi. Corpi aperti al contatto con altri corpi: la relazione tra esseri senzienti passa sempre per il contatto tra i corpi e il pensiero, che nasce dal corpo, si sviluppa attraverso i sensi, varchi aperti tra interno ed esterno.

Per questo Nancy è “il più grande pensatore sul tatto” – come lo ha definito il suo amico e sodale Jacques Derrida nel saggio che gli ha dedicato nel 2000. Ed ha costruito una vera e propria “critica della ragione tattile” studiando le leggi che, in epoche e culture diverse, disciplinano l’atto del “toccare”.

Noli me tangere. Non solo il toccare è la modalità di relazione con gli altri esseri umani che contraddistingue il nostro modo di stare al mondo e di condividere lo spazio con gli altri corpi. Ma le regole che hanno a che fare con ciò che può essere toccato e ciò che non può esserlo hanno un grande impatto sull’organizzazione sociale. Stabiliscono i confini dell’inclusione e dell’esclusione, determinano le separazioni e le connessioni, i vuoti e i pieni che costituiscono la trama del vivere in comune. L’attività condivisa di contatto – con il proprio corpo e con il corpo straniero – è l’atto che fonda quella che Nancy ha definito la “comunità inoperosa e senza progetto”.

Ecco a cosa serve la filosofia, nell’epoca della fine delle Grandi Narrazioni: a rimettere in moto la domanda sul senso della “comunità” a partire da un’esistenza incarnata che è, originariamente e fondamentalmente, “in comune”. Aperta, esposta, vulnerabile.

E di questa vulnerabilità siamo testimoni rileggendo – attraverso la guida esperta di Recchia Luciani – i passi che Nancy ha dedicato al trapianto di cuore a cui si è sottoposto all’inizio degli anni ‘90 e alle complicanze dovute alle terapie antirigetto che hanno condizionato gli anni successivi.

“Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi” ha scritto Nancy ne L’intruso (uscito in Italia per editore Cronopio nel 2000). Il trapianto cardiaco, infatti, è un’esperienza di radicale estraneità che parte dal corpo “manomesso”, dal corpo proprio che deve ospitare un corpo estraneo, da un corpo senza un organo che accoglie un organo senza corpo.

“L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso”. Il corpo non è più un organismo unitario e armonico, ma un insieme di parti che rimane straniero a sé stesso. Il corpo è la nostra estraneità, costantemente esposto alla mutazione e all’invasione: “Non è soltanto nello stesso fiume che Eraclito non può fare il bagno due volte, ma anche nello stesso corpo. Esso non è mai sé stesso senza essere già fradicio di estraneità. Suda gocce sempre nuove” scrive Nancy.

Recchia Luciani dimostra come la straordinarietà di quest’esperienza diventi il terreno fertile su cui poggiare una filosofia del corpo che passa dall’io alla comunità, dal soggetto al mondo, dalla storia personale alla storia collettiva. Non solo. Essa anzi rappresenta un’occasione per noi, un’occasione per rimettere in discussione le nostre categorie su identità ed estraneità, a partire dal nostro essere da sempre corpi aperti ed esposti all’incontro con un’alterità che fa intrusione nel nostro spazio creando “un fastidio e un disordine nell’intimità”. Il “cuore rivelatore”, parafrasando un racconto di Edgar Allan Poe.

È proprio l’intrusione di un estraneo – il cuore di una giovane donna nera – che fa sì che il corpo del filosofo, sospeso tra la vita e la morte, torni a pulsare. È l’intrusione dello straniero che viola l’intimità della comunità e si introduce di forza nella nostra casa “senza permesso e senza essere stato invitato” che ci permette di tornare a vivere.

L’intruso – la cui estraneità non è totalmente assimilabile ed addomesticabile – è una presenza disturbante e, allo stesso tempo, vitale. Lo straniero, cucito nel proprio petto, è una presenza scomoda e indispensabile con cui dobbiamo fare i conti. Se le difese immunitarie rimanessero troppo alte e ci trincerassimo dietro la paura del contatto con l’alterità, alzando muri e barriere impenetrabili, allora saremmo davvero perduti, non potremmo in alcun modo salvarci. Dobbiamo confrontarci con questa doppiezza insolubile: il con-tatto dello straniero ci espropria da noi stessi, ci mette in pericolo e, al contempo, ci salva.

La riflessione sul corpo – estraneo agli altri e a se stesso – va “al cuore” del nostro tempo e ci rivela il ritmo del suo pulsare.