Fenomenologia sanremese di Maria De Filippi

immagini.quotidiano.net.jpegl’Unità 9/02/2017 – “Non cambi mai, non cambi mai, non cambi mai. Chiamami tormento dai”. Le parole di Mina e Alberto Lupo descrivono bene le prime puntate del carrozzone sanremese. Il format è sempre lo stesso – lungo, noioso, a tratti imbarazzante – molto al di sotto dello standard estetico del grande spettacolo televisivo di ultima generazione. Ma affinché l’operazione tormentone vada in porto, c’è bisogno di introdurre una novità da dare in pasto alla critica. Insomma, il solito “deve cambiare tutto, perché niente cambi”, parafrasando Tomasi di Lampedusa.

La novità del 2017 è chiara e ha un nome e un cognome: Maria De Filippi. La sua voce roca, il suo tono imperturbabile, il suo sorriso inquietante, il suo portamento sgraziato, la sua naturale ineleganza. Sul palco dell’Ariston è arrivato lo stile inconfondibile di un’icona televisiva amata e odiata con uguale intensità. Queen Mary, come previsto, è diventata la protagonista indiscussa di cui tutti parlano, lasciando Carlo Conti sotto il mantello dell’invisibilità.

Le battute tristi e gli sketch improbabili – dalla stridente apertura su Donald Trump ai doppi sensi sul pacco di Raul Bova – non hanno scalfito la sua professionalità coriacea. Le è bastato sedersi sullo scalone dell’Ariston per far sentire il suo pubblico a casa. Come nell’arena competitiva di “Uomini e donne” o nel tempio della riconciliazione di “C’è posta per te”, la sacerdotessa della neotelevisione ha composto il nostro nuovo romanzo di formazione, tra cadute trash, eroismi contemporanei e buoni sentimenti. Dalla tragedia del terremoto al villaggio vacanze di Ricky Martin, dallo stiletto spuntato di Maurizio Crozza alla pietosa imitazione di Bob Dylan, la posa ascetica della “signora dell’auditel” può passare con naturalezza di fiore in fiore.

È in questa capacità di “transito” che la implacabile De Filippi nutre la domanda di esperienza del pubblico. Su questo terreno surclassa Conti. Il suo “romanzo popolare” mediatico inevitabilmente ridimensiona il presentatore nazional popolare.

Ormai sono passati decenni dalla “Fenomenologia di Mike Bongiorno” scritta da Umberto Eco nel 1961. È tempo di decifrare con meno furia classista e iconoclasta (lo ha fatto coraggiosamente Salvatore Patriarca nel suo saggio “Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la televisione”) il multiverso creato dalla regina di Canale 5. Per scoprire, all’interno dei suoi programmi, la versione 2.0 del processo di costruzione dell’identità, tra conflitti e riconciliazioni, raccontato dai classici viaggi di formazione. Come sempre, “deve cambiare tutto, perché niente cambi”.