Dall’Homo Sapiens all’Homo Smartphonicus – Una storia sentimentale del telefono

Il mio articolo dedicato a Storia sentimentale del telefono (Il Saggiatore Editore) di Bruno Mastroianni uscito su “Il Riformista” venerdì 30 dicembre 2022 – “Ti prego, Dio, fa che chiami adesso. Caro Signore, fa che chiami adesso. Non ti chiederò mai niente altro, giuro. Non ti chiedo poi molto. Per te sarebbe proprio una cosetta da niente. Oh Dio, una cosettina-ina-ina. Ma fa che chiami adesso. Ti prego, Dio. Per favore, per favore, per favore. Forse se non ci sto a pensare, il telefono squillerà. A volte succede. Se solo potessi pensare a qualcos’altro. Se solo potessi pensare a qualcos’altro. Forse se contassi per cinque fino a cinquecento, alla fine potrebbe squillare. Conterò lentamente. Niente imbrogli. E se dovesse squillare quando arrivo a trecento, non rispondo: non risponderò prima di essere arrivata a cinquecento. Cinque, dieci, quindici, venti, venticinque, trenta, trentacinque, quaranta, quarantacinque, cinquanta… Oh ti prego, squilla. Per favore”.

L’inizio di Una telefonata – memorabile racconto di Dorothy Parker – è tanto anacronistico, quanto attuale. La fatale ironia di Parker è datata 1944. Oggi nessuno rimane più incollato davanti al telefono fisso, aspettando una chiamata che non arriva; nessuno proietta più la sua desiderante impazienza sul riconoscibile squillo del telefono domestico; nessuno torna a casa di fretta sperando in un messaggio lasciato in segreteria.

Eppure… Eppure, tutti riconosciamo in quel tragicomico monologo interiore un senso di straziante attesa che non ci è estraneo; quella lotta tra vulnerabilità e orgoglio almeno una volta l’abbiamo sperimentata, anche se non abbiamo più un numero fisso e la suoneria del nostro cellulare è sempre in modalità vibrazione. La notifica che non arriva, il messaggio non visualizzato, le spunte blu a cui non segue risposta, il fiato sospeso mentre compare la scritta sta scrivendo

Il telefono non è più quello di una volta. Tuttavia – da 150 anni a questa parte – rimane il costante mediatore delle nostre relazioni e dei nostri sentimenti. Ghosting analogico o ghosting digitale, la sostanza non cambia.

L’apparecchio telefonico non è stato soltanto un’invenzione tecnologica che ha cambiato semplicemente il nostro modo di comunicare con gli altri, abbattendo le distanze spaziali e accorciando le lontananze. Nella sua Storia sentimentale del telefono (Il Saggiatore Editore), Bruno Mastroianni identifica nell’invenzione del telefono una vera e propria cesura nella storia evolutiva dell’umanità: dall’homo sapiens all’homo smartphonicus, il nostro modo di muoverci, di parlare, di gesticolare, di ascoltare, di litigare, di conoscere, di amare è completamente cambiato con il telefono, un’appendice del nostro corpo senza la quale non riusciamo più a immaginare la nostra vita.

Certo, continuiamo a usare lo stesso termine – il “telefono” appunto – ma tra l’invenzione di Meucci e lo smartphone che abbiamo in tasca c’è un oceano di differenza. Mastroianni ripercorre i suoi cambiamenti di forma e di sostanza: dalle cabine telefoniche al telefono con la rotella, dal cordless al telefonino, dalle tastiere analogiche al touch screen.  

“Pronto, chi parla?” era l’inevitabile domanda che apriva la conversazione al telefono di casa, subito orientata alla scoperta dell’identità del mittente dall’altra parte del filo. Un’interrogazione unidirezionale che si è trasformata in una domanda reciproca ai tempi delle chiamate fuori casa dal cellulare: “dove sei?” chiediamo a un interlocutore di cui conosciamo l’identità ma non la posizione.

Lo faceva notare Maurizio Ferraris, nel lontano 2006, in un libro dal titolo Dove sei? Ontologia del telefonino, il primo saggio di filosofia dedicato al cambiamento essenziale ed esistenziale rappresentato dall’invenzione di questa macchina per parlare, per scrivere e per registrare da tenere comodamente in tasca.

Mastroianni, dopo poco più di 15 anni, ci fa notare un ulteriore cambiamento linguistico. Oggi la domanda più ricorrente è: “Puoi parlare?” Ci scusiamo del disturbo e chiediamo il permesso a causa dell’eccesso di conversazioni possibili nell’epoca della call permanente.

Sono lontani i tempi della pubblicità con Massimo Lopez e il suo tormentone “una telefonata allunga la vita”. Oggi la telefonata non solo non allunga la vita, ma “sembra quasi accorciarla con quel suo modo di invadere gli spazi e divorare energie e attenzioni”.

I tempi sono cambiati e la nostalgia dei bei tempi del telefono delle origini si fa sentire, soprattutto quanto riguardiamo le corse adrenaliniche di Bruce Willis tra le cabine telefoniche di Die hard o riascoltiamo la voce familiare della Carrà che alza la cornetta in Pronto, Raffaella?

Insomma, parafrasando E.T., l’equazione telefono=casa non può che ingenerare un certo struggimento perché la storia del telefono si intreccia con la nostra storia personale. Ogni generazione ha i suoi aneddoti sulla propria infanzia telefonica: le chiamate lunghissime che facevamo chiusi in cameretta dopo la scuola, l’indignazione dei genitori di fronte ad una bolletta troppo salata, gli scherzi telefonici anonimi in compagnia dell’elenco telefonico, le litigate con la minaccia “ti attacco il telefono in faccia”. Quando ancora era lontana quella “forma pervertita di telefonata senza dialogo” che sono i messaggi vocali…

Oggi grazie allo smartphone (o per colpa sua) siamo sempre reperibili, sempre connessi. Avere un telefono vuol dire essere in una giungla di relazioni che non ci danno tregua, dentro e fuori casa, nel tempo lavorativo e nel tempo libero. Siamo sempre “in contatto”, con una miriade di notifiche, commenti, giudizi che non possiamo evitare semplicemente riagganciando la cornetta. Non basta mettere via il telefono per saltare fuori dalle fitte maglie di questa rete telefonica.

Intorno alle nuove “diavolerie” telefoniche, infatti, si apre la consueta battaglia generazionale tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti, tra analogici e digitali, tra apocalittici e integrati. Mastroianni mantiene un invidiabile equilibrio tra le posizioni antagoniste, con la disinvoltura di chi è abituato a gestire la polarizzazione del linguaggio dei social – non a caso è anche l’autore del fortunato saggio La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media in pubblico (Cesati 2017).

Demonizzare la tecnologia, pensando che basti urlare “spegni quel coso!” per imparare a gestire le nuove sfide della comunicazione smartphonica, è tanto ingenuo quanto deleterio. Urge, invece, una presa di coscienza sul nostro nuovo rapporto con il medium telefonico, una riflessione costante e aperta sulla quantità e sulla qualità del tempo che spendiamo davanti allo schermo dello smartphone.

Il da farsi – spiega Mastroianni – è l’opposto di ciò che urlano gli intellettuali luddisti: “invece di alleggerire, occorre appesantire. Invece di ridurre, bisogna approfondire. Invece di silenziare, conviene alzare il volume”.

Dobbiamo stare in guardia dagli inganni della nostalgia: la soluzione non è un ritorno ad un passato più lento e posato, perché quel passato non è mai esistito. “La comunicazione oggi è frenetica perché una dose di velocità siamo noi a mettercela”; internet, in realtà, ci offre la possibilità di una comunicazione più lenta e ragionata: possiamo pensare prima di premere invio, possiamo prenderci il tempo per riguardare una scena in differita, rileggere un articolo che avevamo liquidato frettolosamente, argomentare con calma la nostra opinione scrivendo un commento più lungo di uno slogan.

Insomma, abbiamo la possibilità di meditare prima di agire: sta a noi decidere se cedere al vittimismo che dà tutte le colpe alla tecnologia, o se dare forma al mondo telefonico di domani prendendoci la responsabilità delle nostre azioni.

E magari riscoprire – nell’epoca delle chat piene di parole, di emoticon e di immagini – il potere della telefonata che ci fa sentire amati. Come cantava Stevie Wonder, “I Just Called To Say I Love You”.