Articolo uscito su Il Riformista di sabato 30 maggio 2020 – “Alla fine della mia vita diranno: Era l’uomo arrivato dal nulla… Se n’è andato come è venuto”. Clint Eastwood – il volto dello straniero senza nome, l’eroe-fantasma venuto dal nulla e tornato nel nulla – compie novant’anni, ma non sembra intenzionato a scomparire.
Il 31 maggio del 1930 nasceva una leggenda della storia del cinema, l’ultimo dei classici viventi, capace di risimbolizzare all’infinito i generi tradizionali e fondativi del paradigma occidentale, dall’epopea western alla tragedia greca. La carriera dal grande attore-regista è iniziata ufficialmente nel 1964 con il mitico primo piano degli occhi di ghiaccio del pistolero con poncho e toscanello di Per un pugno di dollari di Sergio Leone. “Ha soltanto due espressioni, una con il cappello, una senza cappello”: è rimasta famosa la battuta del regista del western all’italiana. Leone ha confessato che avrebbe preferito Henry Fonda per il suo Joe, non quel “blocco di marmo” inespressivo. Ma, come ricorda Eastwood: “Leone credeva, come Fellini, e come molti registi italiani, che la faccia significasse tutto. In molti casi è meglio avere una gran bella faccia piuttosto che un gran bravo attore”. Infatti, il pubblico si innamorerà di quel volto, della sua espressione enigmatica e della sua fisionomia tormentata.
La recitazione verbale ridotta al minimo – fatta di pochi termini bofonchiati e di battute lapidarie, sibilate con voce roca – rimarrà la cifra anche delle sue interpretazioni future. Così come l’eroe solitario e individualista, disilluso e scontroso, che si fa beffe perfino della morte, continuerà a comparire nella produzione successiva. Lo spettro del cowboy che detesta le autorità ufficiali, ma rimane fedele alla sua etica personale e il fantasma del pistolero senza padrone che si scontra con il sistema per seguire la sua idea di Bene popolano la sua cinematografia matura.
L’ultima fatica è del 2019 e lo vede dietro la macchina da presa, nella trasposizione della tragica vicenda giudiziaria di Richard Jewell, ingiustamente sospettato di aver provocato una strage per il puro piacere di diventarne l’eroe. Un caso di gogna mediatica e di giustizialismo crudele, dove la vita di un innocente viene sbattuta in prima pagina, sezionata dai giornalisti e utilizzata dagli agenti dell’F.B.I. in cerca di un colpevole prêt-à-porter. L’eroe eastwoodiano, ancora una volta, è un uomo solo, fragile e impotente – asfissiato dalle spire del tentacolare potere statale e mediatico – che non smette però di lottare per la verità, in difesa della sua dignità contro tutto e tutti.
Dalla Trilogia del dollaro ad oggi, Clint Eastwood è stato interprete di più di settanta pellicole, regista di più di quaranta film, tutti autoprodotti dalla sua Malpaso Production. Uno, nessuno, centomila: Clint Eastwood ha incarnato innumerevoli personaggi iconici, amatissimi dal pubblico internazionale e spesso snobbati dalla critica ufficiale. Dall’Ispettore Callaghan, il fuorilegge che rappresenta la legge con la sua fedele 44 Magnum, al pistolero in pensione William Munny de Gli Spietati, consacrato da quattro Oscar; dalla struggente storia d’amore del fotografo freelance dei Ponti di Madison County, al ruvido allenatore che sussurra “Mo Cuishle, mio tesoro, mio sangue” alla sua Million Dollar Baby immobilizzata in un letto di ospedale. Fino al misantropo ottantenne, reduce della guerra di Corea, che riscatta la sua vita tramite il sacrificio nel finale di Gran Torino.
Eastwood è il cantore dell’America: ha raccontato le tante sfumature dell’identità statunitense, dalle radici archetipiche dell’immaginario West alle imprese belliche della sua storia recente, passando per le microstorie di eroi americani sconosciuti. In questo ventaglio di narrazioni diverse, c’è una cifra comune: le “belle storie”, come ama definire i suoi film, non si limitano a fotografare una realtà socialmente e geograficamente condizionata, ma riescono a comporre una melodia della condition humaine che suona come universale. Le sue narrazioni disegnano una “riflessione sul senso della vita e della morte” senza tempo e senza spazio. Eastwood utilizza i grandi temi della tragedia antica – la colpa, la vendetta, il destino, il sacrificio, l’espiazione – per trasformare la singolarità contingente in paradigma universale.
Per questo Clint Eastwood non è solo un grande regista americano, ma un vero e proprio pensatore contemporaneo. Come ha scritto Giorgio Agamben nel suo saggio Che cos’è il contemporaneo?, un autore appartiene veramente al suo tempo “se non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese”. Eastwood è perfettamente “contemporaneo” perché sa mettere in discussione ciò che presumiamo di sapere sul nostro tempo e su noi stessi. Un vero filosofo “inattuale”.
Le questioni etiche affrontate dal suo cinema non scadono mai nel facile e scontato moralismo. Il suo discorso morale è sempre un discorso complesso e contraddittorio. “Nel giardino del bene e del male”, parafrasando il titolo di un suo film poco conosciuto, i confini tra eroi e criminali sono sfuggenti, la dicotomia tra giusto e sbagliato è costantemente messa in discussione. La semplicità senza orpelli del suo linguaggio e la crudezza limpida della sua poetica riescono a sfuggire al politicamente corretto e a dar conto della complessità del reale. Non c’è mai una soluzione univoca al riparo dal dubbio.
Anarchico, libertario, individualista: Eastwood è fedele solo a se stesso. La sua passione, molto americana, per la libertà come possibilità di fare e di essere ciò che si vuole, è una costante messa alla prova, una sfida personale, un confronto senza requie con la responsabilità di scegliere e di agire. Nel ginepraio delle infinite possibilità, ci si può riscattare e ci si può perdere. Siamo liberi di ritrovarci, ma anche colpevoli di smarrirci.
Gli eroi di Eastwood seguono la propria vocazione e il proprio desiderio. Non si rassegnano e scendono in campo, anche se il mondo finirà per travolgerli, anche se subiranno lo scacco del destino, anche se saranno sconfitti, anche se non c’è salvezza.
I suoi film tratteggiano con maestria la meravigliosa tragicità della condizione umana. Il nichilismo leopardiano dei suoi eroi è racchiuso nella virtù della “tenacia”: letteralmente, “tengono fermo” il timone nella tempesta pur nella consapevolezza che, alla fine, saranno travolti dalle onde.
E Invictus, la poesia che Mandela legge e rilegge durante gli interminabili anni di prigionia (ma anche il titolo della biopic che Eastwood, nel 2009, dedica allo statista sudafricano, interpretato da Morgan Freeman), racchiude il senso dell’eroe eastwoodiano che sfida lo spettatore: “sono padrone del mio destino, capitano della mia anima”.