Baudelaire, nostro contemporaneo

Articolo uscito su “Il Riformista” di sabato 26 giugno. Per celebrare l’anniversario di Charles Baudelaire il tema dell’edizione pesarese di Popsophia è “Paradisi Artificiali” (il programma completo del festival si può vedere qui) – Duecento anni fa nasceva Charles Baudelaire. Un genetliaco che condivide con un altro grande scrittore della modernità e padre della letteratura francese, Gustave Flaubert, anche lui nato nel 1821. Un destino comune che si ripeterà nel 1857: Baudelaire pubblica la raccolta di poesie Les Fleurs du mal e nello stesso anno Flaubert dà alle stampe il suo capolavoro Madame Bovary. Due opere inattuali che rompono violentemente con la tradizione e che descrivono con potenza inaudita l’avvento della modernità. E per questo subiscono lo stesso destino: i libri sono condannati per immoralità e i loro autori sono trascinati in tribunale, accusati di oscenità. Flaubert viene assolto; Baudelaire, invece, condannato al pagamento di una multa salata oltre che all’epurazione di sei poesie dalla raccolta. 

Ma a duecento anni di distanza non si è spento il fuoco di quei versi. La fiamma di Baudelaire illumina la vita moderna, il suo sentire malinconico e contraddittorio è speculare al nostro. Da allora, non c’è generazione che non sia sprofondata in quel turbamento inquieto. “La mia giovinezza – nei versi della poesia Il nemico – fu soltanto una tenebrosa bufera traversata qua e là da brillanti soli”.

“In fondo all’ignoto per trovare il nuovo”! Baudelaire è sceso nell’inferno delle strade della metropoli, ha raccontato i miti e i riti del nuovo spazio urbano, ha immortalato l’ultimo malinconico bagliore di un mondo che stava tramontando, alle soglie della nascita della società di massa. 

Spleen. Lo spaesamento del poeta è quello di chi si sente esiliato a casa propria, è l’umore nero e bilioso di chi si sente straniero in patria. Il malessere – causato da quel persistente senso di caducità e di morte che accompagna l’avventura del moderno – è l’unico capace di “estrarre la bellezza dal Male”. 

Ne Il pittore della vita moderna – saggio del 1863 dedicato all’artista Constantin Guys de Sainte-Hélène – definisce la categoria a cui appartiene il suo stesso spirito: “l’uomo di mondo” in grado di interpretare l’esperienza della solitudine nella folla, di perdere la propria identità nella massa, ma anche capace di distaccarsi aristocraticamente dagli altri. Un’esigenza che sentiamo come autenticamente nostra: la spinta a fonderci e conformarci con le convenzioni della massa e, parimenti, l’esigenza di riaffermare la nostra unicità e originalità.

“Pensare per lui vuol dire: alzare le vele!” ha meravigliosamente sintetizzato Walter Benjamin. Con lui, rivendichiamo il nostro diritto a contraddirci, in una ricerca continua di “corrispondenze” tra ciò che è simile e ciò che è diverso, in una fusione impossibile e desiderata con l’altro da sé. Con lui torniamo in quello stato di perenne ebrezza con cui il bambino guarda il mondo per la prima volta. 

Baudelaire, nostro contemporaneo. Finalmente hanno voce tutti gli aspetti della “vita moderna”, anche quelli apparentemente frivoli e superficiali; dall’arte sacra alle incisioni di moda, dagli abiti alle carrozze, dal trucco all’accessorio, dalla toilette alla parure, ogni dettaglio del quotidiano ha dignità estetica.  

“Osservatore, flâneur, filosofo, chiamatelo come vi pare”, basta che capisca il mondo e sia capace di estrarre l’alto dal basso, la serietà dalla frivolezza, il poetico dallo storico, l’eterno dal transitorio. Ogni modernità, anche quella più artificiosa e artefatta, può essere degna di diventare antichità. “Tu mi hai dato Fango; / io ne ho fatto oro”.

Félix Nadar (1820-1910), ritratto di Charles Baudelaire

“L’uso della cipria – scrive nel capitolo Elogio del trucco – contro cui alcuni filosofi candidi hanno stupidamente scagliato i loro anatemi ha come unico scopo il risultato di far scomparire dalla carnagione tutte le macchie che la natura vi ha oltraggiosamente disseminato”. 

La nuova bellezza del moderno è quella che meglio corrisponde alla complessità del nostro mondo. La bellezza non è un assoluto, ma un “paradiso artificiale”: il bello non è più un canone aristocratico, ma assomiglia allo sfavillio transitorio della festa. 

Les Paradis artificiels, appunto, il titolo della raccolta di saggi pubblicata nel 1860 in cui Baudelaire riflette sugli effetti del vino, dell’oppio e dell’hashish sulla creatività dell’artista e sulla vita della metropoli. 

Riprende Le confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas de Quincey e racconta le esperienze paradisiache e demoniache causate del consumo di sostanze “moltiplicatrici dell’individualità”. Ma descrive le reazioni degli altri più che le sue: ironia della sorte, Baudelaire è un amante del vino, ma con moderazione; ha provato l’oppio e l’hashish, senza mai sfociare nell’abuso e nella dipendenza. Lo dimostrano tutte le testimonianze degli amici che giurano di non averlo mai visto ubriaco o alterato. 

Ma al di là della descrizione degli effetti del consumo e dell’abuso di queste sostanze, è nel saggio introduttivo – dal titolo Il gusto dell’infinito – che il poeta ci regala una verità che va ben oltre una riflessione letteraria sulle droghe.

“La vera realtà è soltanto nei sogni”. La ricerca di una felicità artificiale è parte integrante del nostro vivere, il desiderio di raggiungere una dimensione che ci innalzi al di sopra di noi stessi guida tutti gli sforzi umani. La ricerca di quello “stato paradisiaco”, di quell’autentica “grazia”, di una “specie di eccitazione angelica” che, per qualche ora, ci consente di sfuggire al nostro “abitacolo di fango” innalzandoci verso l’infinito. 

I “paradisi artificiali” sono l’Altrove, un altro mondo immaginato che amplifica e supera quello reale. La ricerca ossessiva di una via di scampo che faccia dimenticare la propria condizione, una gioia temporanea e un’effimera consolazione che seduce la nostra natura mortale. 

Nella dipendenza dalle droghe, però, è in gioco un problema “morale”: diventare ebbri è un peccato di cui Baudelaire si sente colpevole, ma che non si esime dal condannare. Un peccato di “angelismo”: un desiderio demoniaco di diventare come Dio, la tentazione luciferina di negare la condizione umana e, in ultima ratio, di negare la morte. Ma il ritorno nell’infernale temporalità terrestre è solo rimandato: “Orrore! Il Tempo ha ripreso la sua brutale dittatura”.

“Chi avrà fatto ricorso a un veleno per pensare ben presto non potrà più pensare senza veleno. Immaginate la sorte spaventosa di un uomo la cui immaginazione paralizzata non sa più funzionare senza l’aiuto dell’hashish o dell’oppio?” chiosa alla fine del Poema dell’hashish

Svaniti gli effetti di quella protesi dell’immaginazione che aiuta a dimenticare il tempo, svanisce anche il “paradiso d’occasione”. La ricerca di quel surrogato dell’Eden è inevitabilmente destinata a lasciare il posto a conseguenze indesiderate: l’uomo “ha voluto fare l’angelo, è diventato una bestia”.

Ma non è solo con la “farmacia” che l’uomo può accedere all’agognato “paradiso artificiale”, alla sospensione temporanea dello Spleen verso l’atteso Idéal. Baudelaire lo dimostra non solo attraverso la sua opera di poeta, ma anche nella sua attività di critico d’arte, con i suoi testi dedicati a Poe, a Delacroix, a Hugo, a Wagner: l’arte, la poesia e la musica sono vie d’accesso privilegiate a quell’Altrove che unisce l’eterno e il transeunte. 

Nel Richard Wagner, lo straordinario saggio che il poeta francese ha dedicato al compositore tedesco, Baudelaire scrive: “Sembra talvolta, ascoltando questa musica ardente e difficile, di veder tracciati al fondo delle tenebre, lacerati dall’allucinazione, i vertiginosi miraggi dell’oppio”.   

Non è un caso che gli autori della colonna sonora degli ultimi decenni – da Jim Morrison a Ian Curtis, dai The Cure ai The Smiths, fino ai nostri Franco Battiato e Baustelle – abbiano trovato nel sentire individuale di quel flâneur di metà Ottocento l’afflato sempiterno dell’uomo e dell’artista contemporaneo desideroso di aprire “le porte della percezione”. 

Proprio la musica, secondo il poeta, ha la capacità di liberare l’immaginazione, ha il potere eccitante di farci raggiungere territori inaccessibili alla coscienza. Ecco il paradiso artificiale che Baudelaire ci ha insegnato a riconoscere: la melodia e la parola sono i mezzi mistici privilegiati che “invitano al viaggio” in mondi meravigliosi e sconosciuti. “Là, tout n’est qu’ordre et beauté, luxe, calme et volupté.”