La settima puntata della mia rubrica “Appunti dalla catastrofe” sulle pagine del quotidiano “Il Riformista” durante i giorni della quarantena per l’emergenza COVID-19. L’articolo di giovedì 7 maggio – “È tarda notte. Il Segretario Generale riceve finalmente un disco – registrato rocambolescamente da terrorizzati musicisti di “Radio Mosca” – con l’esecuzione del Concerto per pianoforte e orchestra n. 23, K. 488 in La maggiore di W. A. Mozart.
Nella custodia del vinile c’è anche un biglietto: “Iosif Stalin hai tradito la nostra nazione e oppresso il suo popolo. Prego per la tua fine e chiedo al Signore di perdonarti, tiranno!”. Mentre si diffondono le sublimi note dell’Adagio mozartiano, il Compagno Stalin legge le parole irriverenti firmate da una coraggiosa ribelle e sghignazza divertito. Mentre ride, improvvisamente, si stringe il petto e si accascia a terra privo di sensi.
Le guardie che sorvegliano l’entrata del suo appartamento sentono il tonfo del tiranno che cade sul pavimento: “Non dovremmo investigare?” dice timidamente uno dei soldati. “Non dovresti chiudere quella bocca prima di farci ammazzare?” risponde l’altro. Per paura di fare mosse avventate, non fanno niente.
Solo la mattina dopo, nel momento della consegna della colazione, Stalin viene rinvenuto agonizzante sul tappeto del suo studio, nel lago della sua stessa urina.
Viene avvertito il Comitato Centrale. Il primo a raggiungere la dacia di Sochi, la residenza staliniana fuori Mosca, è Lavrentij Berija, il capo della Polizia Segreta che Stalin chiamava affettuosamente “il nostro Himmler”. “Chiamerà un medico?” gli chiede la governante. “Ci sono delle procedure da seguire” risponde secco Berija.
Poco dopo accorrono, trafelati e scomposti, tutti i membri del CC del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Paralizzati dal terrore di sbagliare e confusi dall’assenza della voce del Capo, si riuniscono intorno al corpo del sovrano, ancora disteso sul pavimento incosciente, e si arrovellano sulla stringente domanda leniniana: “Che fare?”
“Direi di chiamare un medico”, dice uno. “Quelli più competenti sono stati imprigionati per tradimento, ricordi?”, replica un altro. “Certo, complottavano per avvelenarlo”. Resta il fatto che “tutti quelli migliori sono nei gulag o sono morti; quelli rimasti a Mosca non sono bravi medici”. “Che ne dite di chiamare un medico scarso?” propone sfrontato qualcun’altro. E sia, si radunino i medici scarsi! Se il Segretario si riprende saranno celebrati come ottimi medici, se non si riprende ci sarà qualcuno da incolpare.
Così inizia “The Death of Stalin”, il film del 2017 uscito in Italia con il titolo “Morto Stalin, se ne fa un altro”, diretto da Armando Iannucci, showrunner e regista italo-scozzese, specialista della satira politica e già autore di comedy sul governo britannico e su quello americano (indimenticabile la sua “Veep, vicepresidente incompetente” su HBO).
La sua black comedy ambientata a Mosca – tratta dalla graphic novel francese “La mort de Staline” – ricostruisce, con assoluta fedeltà e irriverente ironia, i giorni febbrili della morte del dittatore comunista nel marzo del 1953. Dal fatale attacco cerebrale all’annuncio ufficiale del decesso, fino alla spietata e grottesca guerra di successione tra i membri del Comitato Centrale. Tra liste di proscrizione, sadica crudeltà e ridicola follia.
Dal Cremlino post comunista non sono arrivati giudizi positivi per il lavoro di Iannucci. Il film – definito “noioso, ripugnante e offensivo” e accusato di “distorsione degli eventi storici” – non è stato distribuito nelle sale cinematografiche russe.
Eppure, dietro battute insolenti e ciniche, si celano fatti storici ben documentati, come il famoso “complotto dei camici bianchi”. Era il 13 gennaio 1953 quando la Pravda, il quotidiano ufficiale del PCUS, accusava esplicitamente gli “spioni e assassini che si nascondono vigliaccamente sotto la maschera di medici e professori”.
Il paranoico Stalin, terrorizzato di essere avvelenato, fece arrestare, processare e condannare a morte un numero incredibile di medici, per la maggior parte ebrei, compresi il direttore dell’ospedale del Cremlino e il suo cardiologo e medico curante. Tutti accusati di aver attentato alla sua vita e a quella di esponenti del partito e di alte cariche dello stato.
Tragica ironia della sorte: quando Stalin viene colpito da emorragia celebrale non c’è più un medico a Mosca in grado di salvarlo. E così il dittatore muore a causa della sua stessa paura di morire.
I regimi autoritari, si sa, si reggono sulla paura. E la paura non è solo nemica della ragione, ma anche della scienza e soprattutto della medicina. Il potere assoluto non può permettere che ci sia un altro potere al di fuori di se stesso, anche se si tratta della ricerca scientifica; non è ammessa un’altra verità al di fuori della verità di regime, anche se si tratta di emergenza medica.
Insieme alla storia dell’Unione Sovietica d’antan, ce lo dimostrano i regimi antidemocratici alle prese con la gestione della pandemia mondiale da Covid-19.
Quando il dittatore nord-coreano Kim Jong-Un è scomparso dai media per venti giorni sono circolate miriadi di indiscrezioni sulle sue gravi condizioni di salute. Trump ha perfino dichiarato “So tutto, ma non posso dire come sta”. Qualcuno ha ipotizzato che fosse già morto proprio a seguito di un intervento chirurgico andato male. In fondo, non era difficile immaginare le mani tremanti di un medico che sbaglia per paura di sbagliare.
Nella Russia putiniana gli attivisti contestano le comunicazioni ufficiali sull’emergenza: il numero dei morti è molto più alto di quello ufficiale (mancano all’appello i tantissimi casi rubricati come normali polmoniti), non vengono eseguiti test adeguati, le misure di protezione sono completamente ignorate. La dottoressa Anastasia Vasilyeva, capo del sindacato indipendente degli operatori sanitari, ha pesantemente denunciato la gestione dell’emergenza da parte del governo ed è stata arrestata. La paura, però, non è bastata a sconfiggere il virus che ora dilaga nel paese con numeri record quotidiani.
Torna alla mente Li Wenliang – il medico che per primo ha denunciato i casi sospetti di Wuhan – perseguito per diffusione di fake news, arrestato e costretto a ritrattare; per poi essere riabilitato, poco prima di ammalarsi e morire per Coronavirus. “Nessuno sembra accorgersi del fatto che nel mondo niente di tutto ciò sarebbe successo se la Cina popolare fosse un paese libero e democratico e non la dittatura che è”, ha scritto il premio Nobel Mario Vargas Llosa sul Pais.
La questione trasferita in Italia ha vissuto in poche settimane oscillazioni apicali. Da nessun potere ai medici, a tutto il potere ai medici. La politica italiana, con pletorici ed imperscrutabili comitati scientifici, ha riscoperto il primato dei camici bianchi.
Ma dietro l’autorevolezza della medicina ‘militante’ si nasconde il desiderio mai sopito di imprigionare non solo le persone, ma le loro menti. I governanti sono restii a trovare idee e soluzioni per la ripartenza, perché si sentono legittimati e rassicurati dall’emergenza sanitaria.
Dai palazzi romani all’ultimo sindaco d’Italia, la politica riscopre il suo carattere censorio e taumaturgico. Non pareri, ma prescrizioni. Non soluzioni, ma ricette.
Ogni intervento pubblico inietta il virus della paura. Una permanente e irrinunciabile paura e un popolo in procinto di ammalarsi. Un cittadino curato, guidato, e alla fine educato nei suoi comportamenti e nei suoi affetti. La scienza che diventa coscienza.
Ancora una volta il potere usa la medicina, mentre la esalta. Ma questa politica ‘scientifica’ dell’obbedienza, che, in nome della salute, sospende le libertà, e che alla fine criminalizza il dissenso, è veramente la strada per isolare il Coronavirus?
Ricordiamoci le lezioni catastrofiche che ci arrivano dai regimi autoritari di ieri e di oggi.
Chi di paura ferisce, alla fine, di paura perisce.