Sono passati pochi anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale e dell’epidemia di influenza Spagnola, due eventi catastrofici che hanno causato milioni di morti e hanno tinto di nero le dolci speranze della Belle Époque. Il giornale, appigliandosi alla predizione di un imprecisato scienziato americano, profetizza ai suoi lettori l’imminente apocalisse e chiede allo scrittore francese di ipotizzare le reazioni degli uomini di fronte all’incombente spettro della fine.
Cosa faremmo se avessimo coscienza dell’arrivo della fine del mondo? Proust vive già dentro la catastrofe, segregato nella penombra della sua casa, assillato dai sintomi di una malattia che gli colpisce i polmoni, ossessionato dalla conclusione della sua opera. Risponde in poche righe, senza sapere che la fine del suo mondo era alle porte, sarebbe morto neanche tre mesi dopo, il 18 novembre di quello stesso anno.
La pandemia mondiale da COVID-19 ha evocato anche per noi, generazione poco avvezza al confronto con la portata mortifera delle catastrofi, lo spettro dell’apocalisse. E “apocalisse” – lo dice l’etimologia della parola che deriva da “apo, non” e “kalyptein, coprire” – significa “rivelazione”. L’apocalisse è uno svelamento che ci fa scoprire una verità, ci fa vedere le cose con uno sguardo diverso, ci mette in contatto con una parte di noi stessi che non conoscevamo. L’apocalisse è una “visione” che ci dà un nuovo punto di osservazione sul mondo, fuori e dentro di noi.
E se la minaccia dell’apocalisse è davvero un’epifania allora è l’intera nostra vita che deve cambiare di segno: progetti rimandati sono riscoperti, desideri rimossi tornano urgenti, speranze sopite si riaccendono. Il pericolo della fine imminente scansa la pigrizia, ridefinisce le priorità e ridisegna i valori. Se la catastrofe sarà scongiurata – abbiamo promesso a noi stessi in queste settimane – “niente sarà più come prima!”
Lo spettro della fine – mentre eravamo rintanati delle nostre case e potevamo vedere il mondo a distanza, protetti dai vetri delle nostre finestre – ci ha concesso un nuovo sguardo sul mondo, di percepire il senso delle cose nel momento della loro assenza e lontananza.
Lo stesso Proust, nella raccolta Les plaisir e le jours nel 1896, esprime il potenziamento della sensibilità causato dall’isolamento paragonando la sua condizione a quella di un personaggio della storia sacra: Noè, costretto a starsene chiuso nell’arca per 40 giorni mentre sulla terra infuriava il diluvio universale. “Più tardi fui spesso malato e per lunghissimi giorni dovetti anch’io rimanere dentro l’arca. Compresi allora che mai Noè poté vedere il mondo meglio che dall’arca nonostante che fosse chiusa e che sulla terra regnasse la notte”. Forse è vero che non avevamo mai visto bene il mondo e la vita – con le loro meraviglie e i loro orrori – come da dentro la nostra arca in questi difficili mesi di distanziamento sociale.
Ma, continua Proust su L’intransigeant, “il cataclisma non ha luogo, ed ecco che non facciamo niente di tutto questo, perché ci troviamo reinseriti nel pieno della vita normale, dove la negligenza smorza il desiderio”.
Passata la tempesta, sedata l’emergenza, inizia la fase due e, con lei, si ritorna lentamente alla normalità. Il tran tran della vita quotidiana allontana il ricordo di quel tempo eccezionale, carico di senso grazie all’incombere della fine e alla sospensione della routine. L’avvicinarsi dell’apocalisse aveva reso la vita “deliziosa” perché l’impossibile sembrava possibile. Ora, invece, tutto ci sembra terribilmente normale e ordinario.
Il tempo della catastrofe si è ormai trasformato: il tempo dell’emergenza si è convertito nel tempo della convivenza. Siamo di fronte a un nuovo pericolo e dobbiamo stare in guarda: il ritorno di quella che Proust chiamerebbe la nostra “seconda natura”, l’abitudine.
L’abitudine, certo, è essenziale per sopravvivere, senza di lei il nostro spirito sarebbe impotente, saremmo incapaci di “renderci abitabile” perfino una stanza nuova. Ma quest’istinto di sopravvivenza abitudinario ha anche un’influenza anestetizzante sui nostri sensi: ci impedisce di pensare altrimenti, di vedere la “parte misconosciuta della realtà”, di percepire le cose belle e anche quelle “infinitamente tristi”, di conoscere “le crudeltà e gli incanti” della nostra prima natura. Di solito, dice Proust, viviamo con il nostro essere ridotto al minimo e “la maggior parte delle nostre facoltà resta addormentata, riposando sull’abitudine che sa quel che c’è da fare e non ha bisogno di loro”.
Dopo il diluvio, quando lo spettro della fine si è allontanato, siamo ansiosi di acclimatarci, assuefacendoci a nuove abitudini. I desideri dei tempi estranei tendono a spegnersi nella supina accettazione di nuove consuetudini. L’abitudine è la prima a spuntare “sulla roccia apparentemente più desolata”.
Forse questo è il rischio più grande della fase 2: abituarci a una nuova normalità, immergerci in nuove abitudini, senza accorgerci che il mondo, nel frattempo, è diventato meno bello e meno libero di prima. Il pericolo è che questa sia l’ennesima apocalisse senza apocalisse, apocalisse senza rivelazione e senza verità.
Ascoltiamo le ultime parole che Proust consegna al quotidiano parigino: “eppure non avremmo dovuto aver bisogno del cataclisma per amare la vita che oggi ci è data. Sarebbe stato sufficiente pensare che siamo esseri umani e che la morte può arrivare stasera”.