Appunti dalla catastrofe – decima puntata

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Decima e ultima puntata della mia rubrica “Appunti dalla catastrofe” sulle pagine del quotidiano “Il Riformista”. L’articolo di sabato 6 giugno – “Straordinaria non è vero? E niente dialoghi, a noi non occorrevano i dialoghi. Bastava il volto! E dove, dove sono i volti di un tempo? Forse uno, la Garbo. Ah, questi idioti produttori, questi imbecilli, dove hanno gli occhi? Hanno dimenticato cosa vuol dire essere una Diva. Io glielo insegnerò, perché io trionferò ancora!”. Norma Desmond urla queste frasi furibonda. In uno scenario sufficientemente decadente e gotico, illuminata dal fascio di luce intermittente del proiettore e circondata da una nuvola di fumo, lancia il suo grido disperato, reclama il proprio diritto ad essere ricordata.

Una delle scene memorabili di Sunset Boulevard, il film capolavoro di Billy Wilder che compie settant’anni e non è invecchiato di un giorno.

Norma ha appena sottoposto l’ennesima visione domestica di uno dei tanti film muti di cui è stata protagonista al povero Joe Gillis, un soggettista di Hollywood finito in bancarotta, che un giorno è entrato per caso nella lugubre villa dell’ex-diva del muto per non uscirne più.

Proiezioni private – “erano sempre suoi film, non voleva vederne altri” – che le permettono di chiudersi nel rassicurante e glorioso passato, evitando di guardare fuori e di affrontare il domani: “aveva terrore del mondo esterno, terrore che le ricordasse il tempo che era ormai tramontato”.

La voce narrante che pronuncia queste parole è la voce di un cadavere.  Un “morto che parla” e racconta al pubblico la sua stessa tragica fine. Il film di Wilder, infatti, non è altro che un lungo flashback sulle vicende che hanno trasformato uno scrittore squattrinato di Hollywood nel cadavere galleggiante nella piscina di una villa di Los Angeles.

Tutto era iniziato sei mesi prima quando, per sfuggire ai creditori, Gillis capita per caso in quella casa di Sunset Boulevard dove la Desmond vive circondata da cimeli del suo passato glorioso. Una sontuosa e fatiscente dimora tappezzata di reliquie del “suo essere sacro di celluloide” dove lei passeggia come una sonnambula “sull’orlo di una voragine che era il suo passato” tra “larve e pallidi manichini di cera”.

“Siete Norma Desmond, la famosa attrice del muto, eravate grande!” dice Joe riconoscendola.  “Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo!” risponde sicura la Desmond.

Il confine tra finzione e realtà è sfumato, si mescolano tragicamente illusione e vita. Norma è interpretata da Gloria Swanson, una celebre star del cinema muto che torna sullo schermo dopo vent’anni di lontananza per dare corpo alla parodia di quello che era stata. Il regista Cecil B. De Mille appare nel film nel ruolo di sé stesso e un malinconico Buster Keaton è uno degli amici mortiferi che frequentano la casa.

“Riceveva ventimila lettere la settimana, gli uomini pagavano il suo parrucchiere per avere una ciocca dei suoi capelli, ci fu un Marajà che venne dall’India per avere una delle sue calze di seta. Quando la ottenne ci si strangolò” rivela il suo adorante maggiordomo che scopriamo essere stato il suo primo marito oltre che il regista che l’ha resa celebre (interpretato, anche qui non a caso, da un autentico regista del muto, Erich von Stroheim).

viale-del-tramonto-1552491672Il cinema non è più quello di una volta, “è finito” con il sonoro, è “rovinato” con il technicolor. “Un tempo gli occhi di tutto il mondo erano stregati da noi, ma non era sufficiente per loro! No, dovevano impadronirsi anche degli orecchi, allora aprirono le loro bocche bestiali e vomitarono parole, parole, parole… Avevano degli idoli e li hanno frantumati”.

Sunset Boulevard è una riflessione meta cinematografica sul cinema stesso, un film sui meccanismi della Hollywood dei fulgenti anni ’50: i protagonisti sono professionisti che lavorano nel mondo del cinema e il bianco e nero ansiogeno racconta il mondo crudele e spietato dietro le luci della ribalta.

Ma soprattutto Sunset Boulevard è un’opera romantica sul fascino sublime e inquietante delle rovine. Billy Wilder costruisce un film spettrale sul passato che non passa: come il morto continua a raccontare la storia della sua morte, così il passato torna a tormentarci sotto forma di fantasma seducente.

Alla fine del famoso boulevard di Hollywood si può ammirare uno splendido tramonto sul pacifico

“Sunset” non è solo il nome di un famoso boulevard di Hollywood, un lungo viale che si tuffa nel Pacifico e alla fine del quale si può ammirare uno splendido tramonto.  E il film ci consegna la potente metafora del “tramonto” come cornice della trama e come fil rouge che lega le vite dei personaggi: il tramonto di un astro dello star system hollywoodiano; il tramonto dei sogni di gloria di uno sceneggiatore; il tramonto del marito-maggiordomo che assiste al declino della sua Musa. Il crepuscolo degli dei e degli uomini.

Non c’è metafora più adatta della parabola discendente del sole che tramonta per descrivere lo scenario attuale. In una fase di cambiamento come quella che stiamo attraversando, quando il mondo vecchio scompare per lasciare posto al mondo nuovo, inevitabilmente ci si rifugia nella nostalgia crepuscolare. In tempi di crisi, quando il presente è ingrato e il futuro incerto, riscriviamo il passato come luogo idilliaco e felice.

Nel turbato immaginario del presente, sembra avverarsi il destino dell’Occidente che porta nella radice stessa del suo nome latino il presagio della sua fine: la terra dell’Occasum, la terra del tramonto. Anche in tedesco, le terre dell’Occidente sono “Abendlandes”, “le terre della sera”. La luce accoglie la tenebra, il giorno si spegne nella notte: nell’ora labile del tramonto, precorritrice della notte, sfumano i confini delle cose e le certezze del giorno svaniscono.

Nel momento di transizione che stiamo vivendo, scorgiamo la fatale seduzione della nostalgia che ci fa volgere il capo all’indietro alla ricerca della felicità perduta. Siamo attratti, come la Norma di Wilder, dall’idea di vivere nel paralizzante rimpianto per un mondo che non tornerà più.

Tramontare – non dimentichiamolo – è un passaggio periglioso, ma inevitabile. “Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione”: sublime confessione di Friedrich Nietzsche.

Per arrivare a una nuova alba, infatti, non c’è altra via che la notte. Nel declinare del sole è sempre racchiuso il suo prossimo riemergere dalle tenebre: il Giorno, come scrive Esiodo nella Teogonia, non è altro che il figlio della Notte. Ce lo ricorda anche il tragico cinismo shakespeariano: “Non c’è notte sì lunga che non abbia speranza di mattino.

Gli intellettuali, gli artisti, i creativi saranno in grado di scorgere nelle luci fioche di questo tramonto, l’avvenire di una nuova e feconda aurora? Saranno in grado di vivere ciò che sarà, di interpretare fino in fondo il cambiamento a cui siamo chiamati senza rimanere inchiodati al ricordo di ciò che è stato?

Diversamente il tramonto potrebbe essere l’ultimo bagliore della disfatta. Ora come ora, noi stiamo accompagnando nella discesa delle scale la grande Norma Desmond, circondata da fotografi e poliziotti, verso il suo ultimo palcoscenico, dove “il sogno al quale si era con tanta disperazione aggrappata, ora la culla dolcemente”. Norma, con occhi spalancati di lucida follia, ci sussurra all’orecchio la battuta conclusiva prima della catabasi agli inferi.

“Eccomi De Mille, sono pronta per il mio primo piano”.